Il poeta Giuseppe Ungaretti scrisse:”Il vero amore è come una finestra illuminata in una notte buia. Il vero amore è come una quiete accesa”. Con quest’ultimo verso il regista e drammaturgo Francesco Randazzo ha intitolato il suo libro (Il vero amore è come una quiete accesa, Graphofeel Edizioni).
Tutti noi, quando ci innamoriamo, ci sentiamo illuminati e vediamo tutto quanto ci circonda più luminoso. Ma è difficile trovare un amore che dia quiete. Sennò vivremmo tutti felici e contenti. E infatti questa storia è tutto meno che una storia di serenità. E se giunge alla quiete è solo perché i due innamorati si annientano. Per troppo amore.
Sin dall’inizio l’autore chiama gli dei olimpici a testimoni della vita dei due protagonisti, Leyla e Tommaso. E’ la stessa Iride, “la messaggera degli dei che cammina sugli arcobaleni”, a sorvolare con ali di gabbiano sopra le loro esistenze. Ma, come lei stessa afferma, può fare ben poco per modificare il loro destino: lasciare qualche messaggio nascosto, tracciare qualche segno invisibile. Perché se Iride è portatrice di luce, Aello porta, rapida come il fulmine, la bufera e sua sorella Ocipete, colei che scorre veloce, tormenta le anime dei vivi fino a che non sopraggiunge Celeno che devasta i corpi conducendoli alla morte. Sono queste Arpie ad impossessarsi dell’anima di Leyla, togliendole la luce: ancora bambina diventa cieca. I suoi genitori, famosi medici romani, però non si danno per vinti e quando compirà 18 anni la faranno operare da un chirurgo ingegnere il quale ha inventato un microchip che le permetterà di vedere di nuovo. Seguono tre pagine dove l’autore scrive innumerevoli volte: “La speranza è una trappola”.
Leyla si sentirà “trafitta dalla luce” come se fosse la luce ad interrompere la quiete della sua esistenza da cieca. E in effetti poco dopo la madre si ammalerà di Alzheimer e Leyla, rimasta sola con il padre, lascerà la casa familiare finendo per condurre una vita da barbona in giro per l’Europa.
Randazzo con dei flash back continui alterna i racconti dell’infanzia dei due protagonisti. Infine Leyla, ritornata a Roma, incontrerà Tommaso per un caso fortuito, senza mai sapere che era stato proprio lui il chirurgo che le aveva fatto riacquistare la vista. Qui ha inizio la loro storia d’amore breve e sofferta. Ma sarà Leyla a volerla così, tanto che il nuovo nome datole da Tommaso, Moira, che significa destino, sarà foriero di ineluttabilità.
Per l’autore l’amore nasce dal desiderio che è un trasporto quasi involontario: “Quel che si dice di volere non è altro che il sesso. E questo è veramente l’amore”. Il vero amore non è niente di romantico e non è sinonimo di affetto, è un destino. Non si ama qualcuno perché è bello o piace. L’amore si fonda su qualcosa che non piace, che addirittura infastidisce: è il puro fastidio ad attrarre. Perché quando arrivi al punto di pensare e dire: “Nessun giorno senza di lei”, puoi anche decidere che è lei l’ultima cosa che vorrai vedere. E quando lei perde di nuovo la vista e scompare, lui la cerca finché non la ritrova e la segue nella morte. “Conducimi fino alla fine dell’amore”.
Randazzo, narrando questa storia, vuole testimoniare che “non è l’indifferenza a far finire un rapporto, ma l’orrore”. Ma come scrisse Heinrich von Kleist: “Amore fa rima con orrore e talvolta si confonde l’uno con l’altro”.