Il lutto non si può sconfiggere: è semplicemente un modo di vivere diverso.

È questo che scrive Marcela Serrano nel suo ultimo libro dal titolo Il Mantello, pubblicato in Italia da Feltrinelli. Un libro breve, fatto di capitoli ancora più brevi, istantanee di pensieri e ricordi che provano a dare un significato al dolore, che ne ricercano l’utilità. Ma non c’è utilità nel dolore, e lo spirito non ritorna sempre libero, come scriveva Freud, perché se è vero che la vita è più forte di tutto, non è sempre vero che la vita che sopravvive a una perdita, sia poi qualitativamente migliore, più consapevole o più sentita.
Per la Serrano è proprio vero il contrario. “Nel lutto, vince il lutto – scrive – non c’è scampo”. In questo suo primo libro veramente autobiografico, la scrittrice cilena, come in un diario che dal presente torna al passato per poi farlo aderire nuovamente al dolore del presente, racconta il legame con Margareta, la sorella a lei più vicina e morta due anni fa. Non hanno inventato nessuna parola per una sorella rimasta senza sorella, e proprio i consanguinei più vicini, sono quelli a cui riserviamo la fiducia più stretta, l’amicizia più stretta, l’intimità vera, soprattutto quando la vita volge ormai al termine. È solo ai fratelli che chiediamo di salvaguardarci dal resto del mondo mentre stiamo per morire e poi anche dopo.
È a loro, e soltanto a loro, che affidiamo quel nostro corpo che diventa in quei frangenti più vero dei nostri stessi pensieri. Perché la vita è fisica, perché la morte è fisica. Perché il corpo, in realtà, soffre più della mente, e la sofferenza di quelli che amiamo ci distrugge ancor di più al ricordo di essa. E dal dolore duole anche il respiro, come scriveva Miguel Hernandez, citato dalla scrittrice insieme ad altri importanti scrittori che del lutto hanno esplorato tutte le sfaccettature: da Philip Roth a Elias Canetti , da Virginia Woolf a Freud e molti altri. La Serrano, dopo la morte Margareta, rifacendosi a uno scritto di Hernandez, devastata dentro, perché la sofferenza in pubblico è indecorosa e addirittura ripugnante, va a nascondersi per quelli che sarebbero dovuti essere cento giorni, nel podere ereditato dalla madre, in assoluta solitudine.

Quel pezzo di campagna nel quale lei e Margareta avevano trascorso la loro infanzia, e dove tutte e cinque le sorelle poi, avevano costruito la loro casa, è il luogo dove le sembra di vivere ancora accanto alla sorella. Perché se da giovani il lutto, come vuole Freud, si supera più facilmente con l’ansia di vivere, quando la primavera e l’estate della vita sono ormai passati, quello che rimane è solo un lungo inverno di dolore; l’inverno della separazione definitiva. Il lutto è un processo psichico che non va sottovalutato, scrive la Serrano, ma che è importante tenere in alta considerazione perché cambia la persona, il suo modo di vivere. È un dittatore che ti fa trascurare anche le necessità del corpo, che ti fa trovare sollievo solo nel sonno. Tutti a questo mondo siamo sofferenti, e i colpiti dal lutto lo siamo ancora di più, siamo i Rammendati.
La Serrano, proprio come tutti noi rammendati, ha paura che continuare a vivere, a sorridere, a desiderare, a gioire, possa significare tradire la sorella, non scrivere di lei dimenticarla, non farla più esistere, dal momento che quando si consegna il corpo è non solo il momento più terribile, ma anche quello in cui tutto sembra finire. È per questa ragione, per continuare a fare esistere Margareta, ci racconta della loro infanzia, di loro due sempre legate come sorelle siamesi, vicine per età ma non per temperamento. Margareta era la più allegra, la più dinamica, la più avventurosa. Ci racconta di quell’infanzia che è la patria di tutti noi, e poi della giovinezza a Parigi, del Cile martoriato e di tutti quei corpi spariti di cui niente si sa ancora oggi. Ci racconta della malattia della sorella, del suo corpo mutilato e deformato, rivolgendosi a tutti coloro che sanno cosa significhi veder morire di cancro un familiare, una persona tanto cara e amata. Ci parla della scrittura e della letteratura come terapia e testimonianza, di come il passato non solo non muore mai, ma non è nemmeno passato.
Nessun mantello può coprire il freddo della morte come credeva la signora Clara Sandovan, sarta e tessitrice, che cucì il mantello con il quale fu ricoperta la bara del figlio perché non sentisse freddo lì dove regna la Morte. Nessun mantello potrebbe tenere al caldo Margareta ormai, ma mantiene quello che col tempo diventa il tepore di un dolore costante, il dolore di quelli che restano, perché la persona in lutto è una persona malata, anche se per appartenenza comune il lutto non viene considerato una malattia. Marcela Serrano è ormai malata, e col suo linguaggio semplice, senza mai eccedere, anzi con una compostezza che a tratti inibisce empatia e commozione, ci racconta di quella malattia dalla quale non vuole guarire per non smettere di soffrire, perché soffrire significa mantenere viva la sorella. E fa di questo libro, di questi appunti sull’elaborazione del lutto, il diario di tutti noi Rammendati.