La relazione di cura medico – paziente. Cosa c’è ancora da sapere è un libro scritto dalla Dott.ssa Liuva Capezzani, Psicologa Psicoterapeuta, Psico-Oncologa. Specialista in Psicoterapia Cogitivo Comportamentale, Psicoterapia Sensomotoria. Il libro è introdotto dalle parole del Professor Alessandro Meluzzi, Psichiatra Psicologo e Psicoterapeuta che descrive il disagio della medicina odierna, fatta di burocrazia, tecnologia ed economia, elementi certamente importanti ma che annullano inesorabilmente ogni forma di empatia tra medico e paziente.
L’autrice ci racconta una vicenda che l’ha coinvolta in prima persona quando aveva 26 anni. Era il 1997, suo padre non stava bene ed era appena stato operato. Lei improvvisamente si è trovata di fronte al primario con suo fratello e sua madre. Aspettavano la diagnosi che, purtroppo, non tardò ad arrivare: suo padre aveva un male incurabile. Improvvisamente il mondo le crolla addosso, tutto cambia. Cambiano le prospettive, cambiano i progetti. Tutto. Nel momento in cui le viene affidato dai medici che curavano suo padre l’arduo compito di mediare in una situazione estremamente delicata di dolore, si rende conto che ben presto che il mediatore ha un ruolo fondamentale in questi casi, con il fine di accompagnare serenamente la persona al termine di un percorso di vita.
L’autrice ha voluto raccontare nel suo libro l’importante relazione di cura tra medico-paziente. Un canale comunicativo che aiuta entrambe le parti, che non equivarrà per tutti ad una guarigione e neppure ad uno stato di benessere fisico, mentale e sociale, ma rappresenta comunque una possibilità di essere accompagnati dignitosamente verso un cammino difficile in cui l’empatia e il supporto psicologico rappresentano un tassello fondamentale, soprattutto alla luce di un distacco con i pazienti che debbono lasciare la vita terrena.
Il libro rappresenta un vero e proprio aiuto per tutti i medici, operatori sanitari e persone che esercitano la nobile professione di curare gli altri, con il fine di rivolgere un invito alla riflessione circa il rapporto tra paziente e medico, per attenuare il senso di vuoto e solitudine che talvolta si maschera nei volti di tutti quei pazienti che devono affrontare un viaggio in corsia. Talvolta con una serena conclusione, talvolta no. Il libro vuole sollecitare i medici, la loro intelligenza e le loro risorse umane in funzione di una terapia che possa rivelarsi utile per tutti; pazienti e medici.
Viviamo in un periodo storico in cui, molto spesso, i pazienti sono costretti ad affrontare spiacevoli situazioni di malasanità e talvolta vengono abbandonati da coloro che dovrebbero assisterli. Il cammino di cura si trasforma in un torbido percorso ad ostacoli tra le lunghe corsie degli ospedali italiani; da una porta ad un’altra, circondati da corridoi vuoti, finestre spalancate e corrose da un tempo che scorre senza mai fermarsi ma che non da alcuna risposta. Un tempo che non riesce a lenire lo stato d’animo e di agitazione che schizza come una scheggia impazzita nella mente di un comune cittadino che continua a girare la testa in quelle enormi stanze vuote in attesa di risposte che non arrivano, in attesa di domande che si perdono in rimbalzi e fredde interazioni che invece, potrebbero ammortizzare la situazione in cui versano molte famiglie italiane in corsia.
La prima sezione del libro pone delle riflessioni sul rapporto medico-paziente dal punto di vista antropologico, etico, storico, filosofico, giuridico e raccoglie i contributi del Prof. Alessandro Ceci, dei Prof. Massimo Cocchi e Fabio Gabrielli, del Prof Francesco Bruno, la Dott.ssa Liuva Capezzani, l’Avvocato Domenico Naccari, l’Avvocato Pasquale Gara, il Prof Oscar Bertetto.
La seconda sezione, invece, riguarda la modulazione della relazione di cura medico-paziente e propone griglie di variabili relazionali che possono essere riconosciute e monitorate nella dinamica relazionale di cura orientata al cambiamento. La sezione si apre con il contributo della Dott.ssa Martina Ardizzi, segue la Dott.ssa Liuva Cappena , il Dott. Luca Imperatori e chiude il Dott. Alessandro Ceci.
La terza sezione riguarda invece le esperienze di cura nel setting istituzionale e privato psico-oncologico, in quello del pronto soccorso, medicina generale, psicoanalitico, con i contributi della Dott.ssa Maria Antonietta Annunziata, la Dott.ssa Liuva Capezzani, il Prof Luca Ostacoli, la Dott.ssa Carmen Settanta, Dott. Achille Ginnetti e il Prof. Francesco Bruno. Infine, l’ultima sezione, descrive come i social media abbiano cambiato l’interazione medico-paziente. Hanno contribuito: la Dott.ssa Tania Sabatino, il Prof Vincenzo Saraceni, il Dott Federico Zangrando, la Dott.ssa Martina Saraceni, il Professor Filippo Maria Ferro, il Dott. Cesare Catà. La postfazione del libro è stata curata da David Lazzari, Direttore Servizio Psicologia Azienda Ospedaliera Terni, Past President Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia, Esecutivo Nazionale Ordine Psicologi.
Noi abbiamo intervistato la Dott.ssa Liuva Capezzani, autrice del libro.
Com’è nato il libro?
“E’ nato dal bisogno di riflettere sulle criticità e le potenzialità della relazione di cura tra operatori sanitari e pazienti, a fronte di molte osservazioni che in merito ho potuto raccogliere, sia da esperienze personali e familiari di malattia e cura, che dal mio percorso clinico professionale ed interdisciplinare nell’ambito della mia attività privata e pubblica presso un importante istituto nazionale oncologico. Molte criticità sono state già in precedenza discusse dalla letteratura ma prevalentemente circoscritte e identificate nella complessità dei fattori comunicativi ed empatici, degli attori coinvolti, il medico, il paziente, l’istituzione, la cultura, la politica e i media in cui sono immersi tutti loro. Ma non è solo questo. Oggi le criticità della relazione di cura sanitaria hanno bisogno più che mai di essere intese, e quindi risolte, con un riferimento, possibilmente riformulato, alla cultura della cura, che altro non è che cultura della relazione. Soprattutto perchè sono molti gli studi scientifici recenti di epigenitica che mostrano come la qualità delle relazioni, tutte le relazioni, ma in particolar modo quelle di cura, abbia un effetto sulla salute delle persone coinvolte, sulla loro maggiore o minore resilienza agli stress e alle malattie, incidendo sui sistemi psiconeuroendocrinoimmunitari. Il testo quindi rintraccia i presupposti antropologici, etico-filosofici e giuridici fondanti della cura, per arrivare ad identificare i fattori che offrono qualità alla relazione e facilitano la cura della relazione stessa. Fra questi fattori il più importante a me sembra la capacità di regolare le dinamiche relazionali, partendo dalla conoscenza e/o il riconoscimento che tale competenza ha una base neurobiologica, ed è quindi plastica ed istruibile ma poggia sul condizionamento e l’organizzazione della storia, qualità e dinamica delle cure che ciascuna persona, indipendentemente dal ruolo che riveste, istituzionale, clinico o di utenza, ha ricevuto fin da piccolo quando era in condizione di bisogno e non autonomia fisica. Queste esperienze primordiali segnano, oltre al resto, la qualità del rapporto che in età adulta ciascuno ha col proprio corpo e con la persona a cui lo affidiamo o quella di cui ci prendiamo in carico in caso di malattia. Segnano, quindi, l’approccio “incarnato” di fiducia/serenità o diffidenza/controllo/stress nei confronti delle terapie, di chi le offre e di chi le riceve. Voglio aggiungere che il testo cita nel titolo la relazione di cura medico-paziente in particolare. In realtà si parla della relazione di cura sanitaria, tra possibili diversi operatori, medici, infermieri, psicologi e pazienti. Forse è stato un errore quello di indicare nello specifico la figura del medico, probabilmente suggestionata da mie pregresse esperienze di cura, dove, come paziente e familiare di pazienti, i medici sono sempre stati i miei più immediati e ricercati interlocutori”.
Quanto è stata determinante la sua esperienza personale per il suo percorso professionale?
“Direi incisiva in due momenti particolari. Il primo fu quando mi trovai a colloquio con uno dei chirurghi che operarono mio padre d’urgenza e in modo inaspettato per tutti di un carcinoma pancreatico aggressivo, avanzato, metastatico. Dopo l’intervento ci diedero un tempo di sopravvivenza “teorico” di circa tre mesi, senza prospettiva di utili trattamenti. C’era poco tempo per fare tutto, prendere coscienza della diagnosi, valutare quali informazioni, in quali tempi e con quali gradualità rendere consapevole mio padre, capire se lui stesso aveva già capito prima di ogni opportuna comunicazione e se contemporaneamente stesse tentando di non farci capire che aveva capito, rendere condivisibile la situazione precipitante con gli amici e i familiari più stretti, adattarsi comunque alle informazioni, praticare quanto di burocratico c’era da amministrare, preparare e sostenere mia nonna paterna già anziana, vedova dall’età di 30 anni e con un figlio unico. Poco tempo per fare previsioni sulle risposte emotive di ciascuno in famiglia. Durante quel tempo, superata la fase post-operatoria, mio padre ebbe diversi ricoveri per complicanze dovute alla malattia stessa. In quel pellegrinaggio tra casa ospedale e centri di assistenza domiciliare, forse la più imprevedibile fu mia madre. Sempre paziente, calma, discreta, non si dava proprio pace, non si rassegnava, ancora incredula, alle risposte dei medici che continuavano a ripeterle “non c’è nulla da fare”. Così quello stesso chirurgo, con cui poi mi trovai a colloquio e che in modo brusco un giorno le disse, “non morirete insieme di vecchiaia, se lo metta in testa”, pensò di chiamarmi, un giorno che in ospedale non c’era né mia madre né mio fratello, per espormi una richiesta, o meglio una esigenza aziendale: “l’ospedale ha bisogno di posti letto, suo padre deve essere dimesso, non c’è nulla da fare, sua madre non ci asseconda, ancora non ha capito che suo padre non morirà di vecchiaia. Lei che fa la psicologa e sembra più calma di tutti da che parte sta? Dalla nostra o da quella di sua madre?” Risposi che non sarei stata da nessuna parte se non da quella di mio padre, l’unico a cui dovevo veramente il mio tempo. In quel preciso momento ebbi una sorta di chiamata. Capiì che dovevo occuparmi di psico-oncologia, iscrivermi ad una scuola di psicoterapia e forse mediare fra più parti. La prima che dovetti trattare riguardò la mia scelta di declinare un phd all’estero sulle neuroscienze, la cui domanda era stata nel frattempo accolta. Il secondo momento incisivo per il mio percorso professionale avvenne qualche mese dopo il decesso di mio padre. Mi iscrissi ad un corso di volontariato da praticare presso un reparto di degenza per malati oncologici in fase avanzata di malattia, o terminali. Appena iniziato, incontrai un paziente che senza un filo di voce e con un gesto flebile delle palpebre degli occhi sembrò accennarmi di sistemargli il lenzuolo riverso. Il giorno dopo non trovai né più lui né le sue lenzuola. Uscìì nel frastuono del traffico, delle sirene, delle ambulanze, tra l’innafferabile fretta degli studenti e dei camici bianchi intorno. La vera tragedia mi sembrò che morte e vita si consumassero a pochissimi metri di distanza senza che nessuna sapesse dell’altra in tempo reale. Uno spaccato che potevo tenere unito rendendomi invece conto che io sapevo quali erano le distanze, pochi metri, pochi centimetri. Mi sembrò preziosissima quella consapevolezza: Che dovessi muovermi in quello spaccato continuando a raccogliere cenni, per attimi distinti che potevano valere vita e morte. Scoprii in quella giornata, più che nei tre mesi concessi a mio padre, che attimi e piccole distanze potevano essere attesa e manifestazione di intensa vita. Il mio percorso professionale è così, tra dolori e sollievi, attese e rivelazioni, ricerca di senso e movimento, dolori e lievità di consapevolezza, da una distanza all’altra”.
Quanto è importante il rapporto medico-paziente?
“Il rapporto medico-paziente è imprenscindibile sia per il paziente, che rivolge al medico una domanda di aiuto, sia per il medico che risponde a quella domanda con una precisa assunzione di responsabilità deontologica, etica e civile. Ciò che rende importante questo rapporto ai fini della soddisfazione della domanda e della migliore assunzione di responsabilità, è la sua qualità modulatrice per la salute. La persona malata non chiede più solo di guarire ma anche di essere accompagnata nel processo di cura potendo prevedere che il medico di riferimento rimanga tale nel tempo, anche dopo la guarigione. Oggi il rapporto medico paziente esprime non solo i bisogni del paziente di essere preso in carico e del medico di essere investito di fiducia oltre la seduzione di tanti messaggi pseudoscientifici che provengono dal mondo dei media, ma è anche il luogo in cui il paziente esprime desideri. Desiderio di confidenza, intimità e socialità altrove frustrato, o di controllo e potere sulla relazione medesima o sul proprio corpo, desiderio di affidare la stanchezza del proprio corpo alla determinazione di mani raffinate. E’ un desiderio di dialogo e narrazione fine a se stesso che usa a pretesto il sintomo, la malattia, e ciò che questi generano, le ansie le incertezze per la famiglia, il futuro il lavoro. Dovrà essere molto rivalutato il ruolo del medico di famiglia, dello psicologo e dell’infermiere in questo senso. Ciò non vuol dire che tutti gli operatori dovranno sostituirsi a figure confessionali parapsicologiche ma che dovranno tutti assolvere ad un compito di ascolto e narrazione, di riformulazione e restituzione di ciò che il paziente e i suoi caregiver sanno e comprendono della malattia, di come reagiscono ad essa, e soprattutto del loro senso di vita e morte. Sono poche le relazioni che hanno il privilegio di toccare in vivo la principale questione esistenziale e cioè il senso del dolore e della morte e di favorirne un di idiosincratico adattamento. Quella della relazione di cura tra operatori sanitari e pazienti è una relazione ontologica, nobile. E’ importante in primo luogo per questo. Poi perché sappiamo da studi di epigenetica scientifici che buone relazioni di cura diminuiscono il rischio di ammalarsi e favoriscono i processi resilienti di guarigione. Credo però che la principale paura del paziente all’interno delle relazioni sanitarie non sia la paura di non guarire, ma la paura abbandonica, di non avere nessuno accanto su cui possa fantasticare di essere salvato, o da cui possa prevedere di essere accompagnato anche in fine vita o che lo aiuti a trovare sollievo e attraversare meglio in salute un tratto di vita irta di incertezze. Dobbiamo apprendere che la paura abbandonica del paziente che teme di essere trascurato dal suo medico di riferimento e che, quando questi parte per le vacanze, scatta con condotte di controllo nei suoi riguardi attraverso messaggi e telefonate inaspettate, talvolta con poco valore di urgenza ed emergenza, può rappresentare nel paziente l’esito di una storia primordiale di cura ed accudimento ambivalente, talora attenta e talora trascurante, che in assenza di certezze e di risorse autonome ha condizionato lo stato di dipendenza. La stessa paura o lo stesso tema abbandonico può rappresentare anche per il medico una dimensione inconsapevole dominante, non solo rispetto all’istituzione che non lo tuteli per qualche ragione, ma pure rispetto al suo paziente quando questi decida di confrontarsi o approfondire la propria situazione, rivolgendosi ad altro professionista. In queste circostanze il medico può essere attraversato da un implicito disappunto rancoroso, o esplicito risentimento polemico verso il suo paziente. Accade plausibilmente all’operatore se nella propria storia evolutiva abbia avuto esperienza di non comprensione ed isolamento dopo proprie richieste di accudimento fisico. Esperienza che porterebbe ad un’autosuffficienza rigida, o a un accudimento invertito, cioè nel lungo termine alla ‘vocazione del medico’ , aggiungerei con un senso di sé, paradossalmente ‘invulnerabile’, ‘indiscutibile’. Avere contezza che il proprio agire e reagire nell’ambito delle relazioni di cura sanitarie spesso è modulato da apprendimenti di storie di relazione di cura pregresse, e rinnovare sulla base di nuove plastiche sintonizzazioni neurobiologiche la relazione di cura e quindi parte della propria vocazione medica, può aiutare l’operatore a meglio modulare qualunque naturale asimmetria nella relazione coi pazienti, – in generale con tutti gli interlocutori possibili, – e di conseguenza può aiutare il paziente a vivere in modo attivo, partecipato, tutto il processo di cura come una dimensione sicura di esplorazione “sana” e quindi come un atto terapeutico (“salvifico”) in sè. Questo faciliterebbe quell’alleanza terapeutica, che riconosce ai medici autorevolezza tecnica ed umana da parte dei pazienti e ai pazienti un luogo sicuro, dove stabilizzare fiducia, prevenire sentimenti e controsentimenti persecutori , stress ed infiammazioni reattive alla malattia e all’incertezza sulle terapie, o secondarie alle dinamiche della relazione interpersonale, e quindi favorire processi di resilienza psicofisici”.
Secondo Lei la sanità italiana è sufficientemente preparata su questo fronte?
“A mio avviso ancora no. I fattori sono molteplici. Il più importante secondo me è di tipo culturale e dipende molto dall’idea che abbiamo di salute/malattia e da come tale idea viene declinata operativamente. Per poter intendere la relazione di cura medico-paziente come un modulatore del benessere di ogni singolo cittadino, sano o malato che sia, ogni società dovrebbe poter assumere quella relazione come uno degli elementi costitutivi del concetto di salute stesso. In altri termini superare la stessa definizione di salute ancora vigente e formulata dall’OMS nel 1946 come “stato completo di benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia” che non solo non permette di prevedere mai per nessuno uno stato “completo” di benessere e nemmeno mai su tutti e tre i piani contemporaneamente, psichico fisico sociale, ma non contempla ciò che sarebbe necessario, adottare una visione olistica di salute e malattia. Come ricorda Michalel Marmot in The Healt Gap nelle parole del suo tutor Len Syme, per comprendere salute e malattia “occorre aver chiaro che quello che accade nella mente di una persona ha profondi effetti sulla sua salute fisica, mentale e sul suo rischio di morte e che quello che accade nella mente è profondamente influenzato dalle condizioni in cui la persona è nata, è cresciuta, vive, lavora, invecchia e dalle disuguaglianze in potere, in denaro e nelle risorse che influenzano le condizioni della vita quotidiana”. Una visione olistica culturale del concetto di salute che in Italia ora manca, o se è presente non è ancora così dominante nella formazione sanitaria, in particolare quella medica dominata sempre da un paradigma prevalentemente ed esclusivamente di tipo positivistico. Di converso però qualcosa sta cambiando. Due fatti recenti. Lo scorso 19 Giugno è stato approvato il Decreto Calabria che riconosce ed istituisce per legge la Psicologo di famiglia, o meglio lo Psicologo di cure primarie all’interno degli ambulatori dei medici di famiglia. Lo stesso decreto inoltre prevede norme che riguardano anche la formazione. Inoltre, la figura professionale dello psicologo è stata inclusa e formalizzata nelle attività del pronto soccorso per situazioni specifiche, di supporto specialistico e di sostegno all’equipe, dopo l’approvazione delle nuove Linee Guida per le attività del pronto soccorso durante la Conferenza Stato Regioni avvenuta lo scorso Luglio. Piano piano si potrà mettere al centro della relazione di cura, non più il medico, non più il paziente, ma la relazione di cura in sé come fattore specifico di cura e cambiamento con esiti positivi sulla salute di tutti i cittadini, e da questo, come già alcuni studi che in Veneto Umbria e Puglia hanno integrato prima delle leggi sperimentazioni di collaborazione tra medici e psicologi nelle cure ai pazienti e formazione interdisciplinare, risparmio anche per la spesa pubblica. In fondo se è vero che la relazione in generale si manifesta in tutto anche nell’assenza, è anche vero che probabilmente nella professione di psicologo essa ha la sua migliore potenzialità di resa per essere in sé specificamente professione integrata sia di cura che di relazione”.
Come si potrebbe migliorare questo aspetto?
“Direi inserendo più formazioni psicologiche per le facoltà universitarie di tipo sanitario, più aggiornamenti psicologici per i professionisti sanitari, più psicoeducazione nelle scuole di tutti i livelli, inserendo nei programmi televisivi più rubriche di divulgazione psicologica, come si fa per la nutrizione, la cucina, lo sport e la medicina in sé, ma soprattutto, investendo e lavorando per le famiglie ed anche la scuola. La famiglia è il primo ambiente esperienziale e formativo della relazione di cura. Esiste una stretta correlazione tra la qualità delle prime relazioni di cura intrafamiliari, fin dai primi mesi di vita, la qualità delle relazioni interpersonali adulte, fra cui anche specificamente quelle di cura, e la salute e qualità di vita nell’adulto. Se le relazioni familiari sono funzionali e sicure per i bambini, esse diventeranno un modello, uno stile di riferimento adattivo e resiliente per ogni tipo di stress anche nella vita futura. Se le relazioni intrafamiliairi, sono disorganizzate, allora anche le relazioni future potranno essere disorganizzate e fonte di stress e malattia. Devono essere tutelate le situazioni a rischio in cui siano esposti i minori, quindi aiutare le famiglie ed i genitori ad assolvere alle proprie funzioni quando venga meno certa integrazione e quando la frammentazione possa portare alla divisione, alla traumatizzazione, agli affidamenti indebiti. Anche qui, servirebbe che le famiglie si potessero appropriare di più cultura, di più conoscenze, di più previsione e quindi modulazione. Può essere realizzato insieme alla scuola ed anche per la scuola nelle istituzioni pedagogiche, dove la relazione docente- discente dovrebbe riproporre sempre una relazione di cura su base sicura, incentivando sicurezza esplorazione ed accoglienza, ma dove anche, tuttavia, talvolta assistiamo a scenari invalidati dell’adulto e invalidanti del minore”.
A chi è rivolto questo libro e perché?
“A tutti. Ai professionisti di ordine sanitario perché si parla di un tema che li riguarda più da vicino e può fornire loro delle informazioni e degli strumenti nuovi di analisi e consapevolezza su ciò che è agito durante la relazione di cura e trasformare l’agito stesso in un atto di cura. Si tenga presente che la relazione è una relazione incarnata dove il corpo dei principali attori a tutto il processo di cura comunica non solo asimmetrie tra chi sta bene e chi sta male, quindi messaggi di benessere e sicurezza e messaggi di sofferenza ed incertezza ma anche una storia delle risorse perse e conservate per adattarsi ai cambiamenti, più o meno importanti per la propria sopravvivenza. Van der Kolk, un illustre psicoterapeuta che si occupa da anni di traumatizzazioni, ci informa che il “corpo tiene il punto”. Un gesto, una tensione del volto, un sorriso, lo stesso linguaggio verbale possono relazionarsi sia allo stato fisico e mentale del momento che a memorie più o meno coscienti di esperienze sofferte non superate, quindi non tradotte non comprese.
Se l’operatore sanitario, che si occupa soprattutto della salute del corpo, non apprende e non tiene conto di questi aspetti, può incorrere in comunicazioni complicate, rischiare di non ottenere di stabilizzare l’umore disforico del paziente perché questi possa riflettere adeguatamente sulle scelte terapeutiche o perché possa partecipare al processo di cura attivamente, con un’alleanza terapeutica che non deleghi alla responsabilità solo del medico o che non tenga in debita considerazione le sue competenze. Si può incorrere talvolta anche in errori di diagnosi, sentimenti abbandonici, agli estremi in conflitti che degenerano all’ambito della medicina difensiva. E’ importante che l’operatore sanitario si relazioni al corpo del paziente in senso storico non solo per la raccolta anamnestica dei sintomi fisiici tipici della malattia ma anche per la raccolta della storia delle risorse biopsicosociali bloccate che possono compromettere la futura resilienza ai trattamenti. Ancora più importante che l’operatore sanitario si relazioni non solo al corpo del paziente ma anche al suo personale corpo, perché nel suo stesso corpo, come spieghiamo in un capitolo sulla neurofisiologia della relazione di cura, attraverso i processi neurocettivi e dei neuoni mirror riverberano le risposte alle sensazioni fisiche della storia biopsicologica incarnata del paziente. Avere contezza delle proprie sensazioni neurocettive permette all’operatore di indagare meglio i fattori protettivi della salute del paziente. Questa contezza trasforma l’operatore sanitario oltre che in buon operatore anche in buon semeiologo, un buon lettore, un buon narrartore, un buon psicologo senza averne una laurea. Può essergli di aiuto per cominciare proprio questo testo. E’ d’altra parte rivolto anche ai cittadini perché la maggior parte degli utenti sanitari leggono la prestazione solo in termini di bisogno necessità desiderio e soddisfazione dei medesimi senza che abbiano contezza della reale complessità del ‘sistema di accudimento ‘intero’ che investe anche l’istituzione, la società, la politica, la cultura, la scienza. Credo posa essere un testo capace di riconoscere e restituire autorevolezza alle professioni sanitarie, mediche psicologiche, imfermieristiche da una parte, e dall’altra di favorire uno sguardo transculturale ed olistico alla malattia e salute dove cultura e relazione sono proposti come centrali e loro principali modulatori”.
Quali sono le conseguenze di una totale assenza di rapporto tra medico-paziente?
“Non credo si possa dare una condizione di totale assenza del rapporto medico-paziente se sussiste una domanda di aiuto nei riguardi del medico. Come il 1°assioma della comunicazione asserisce che non si possa non comunicare perché qualsiasi comportamento comunica qualcosa di noi, anche il silenzio, così direi anche un medico, un operatore sanitario, assente/distanziante, o non in grado per competenza di rispondere alla domanda del paziente, o addirittura ambivalente e trascurante nei suoi riguarda definisce comunque un tipo una relazione e le sue effetti funzionali/disfunzionali. Credo invece si possa parlare di qualità e non qualità di una relazione medico-paziente, dove la qualità è data in particolare dalla capacità di gestirne i fattori di modulazione e sempre in generale dalla capacità di prendere in carico l’intera persona, non solo la sua malattia, anche nei casi in cui il medico debba declinare la domanda del paziente a qualcun altro ed interrompere lì la sua relazione con lui. Tutte le relazioni possono far star bene o ammalare. In tutti gli ambiti umani. In ambito sanitario relazioni di cura prive di qualità generano stress o aumentano l’intensità e la durata della risposta fisiologica per esso, possono demotivare l’alleanza terapeutica sia nel medico che nel paziente, possono sfociare in abbandoni o sentimenti abbandonici, in conflitti e denunce o addirittura possono infiammare e ammalare ulteriormente. Le ricerche condotte da Maunder e Hunter mostrano che se una relazione è investita da un atteggiamento troppo distanziante da parte del paziente ed il medico non fosse in grado di regolare tale distanza, per mancanza di tempo, perché non capace di evocare emozioni ed ulteriori comunicazioni empatiche, l’espressione dei bisogni del paziente continueranno ad essere inibiti ed il medico sottovaluterà i segnali di allarme. Per esempio un medico che rimproveri un suo assistito per non essersi attenuto a regolari controlli o che riferisca degli errori delle scelte terapeutiche di un collega a cui il suo paziente si fosse precedentemente rivolto, espone il paziente a sensi di colpa a sfiducia nella categoria medica e al bisogno di non affidarsi. Se la relazione invece è investita da un eccesso di preoccupazione da parte del paziente ed il medico non è in grado di regolare questo aspetto con una disponibilità di informazioni efficaci e di presenza affidabile della sua persona verso il suo assistito, aumenterà la paura abbandonica e l’intensità dello stress e della vulnerabilità percepita dal paziente. Ogni sensazione può essere letta come minaccia incombente pericolosa. Approcci preoccupati e distanzianti aumentano la frequenza cardiaca e i livelli di ACHT e cortisolo e quindi la risposta allo stress sarà maggiore e prolungata con incrementi di infiammazione e ciò che questo comporta per la salute danneggiandola”.
Progetti futuri?
“Continuare a fare il mio lavoro ed occuparmi di relazioni umane”.