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July 9, 2019
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Il D-Day, lo sbarco degli Alleati in Sicilia visto da Licata nel libro di Carità

Intervista allo storico sul suo libro, intitolato “10 luglio 1943, L’assalto degli Alleati alla Sicilia- La Joss Force attacca Licata”

Francesco PirabyFrancesco Pira
Il D-Day, lo sbarco degli Alleati in Sicilia visto da Licata nel libro di Carità

Postazione antiaerea della 29. Panzergrenadier-Division in azione nello stretto di Messina nell'estate 1943 (Wikipedia).

Time: 6 mins read

“76 anni fa, la notte del 10 luglio 1943, una immane flotta anglo-americana di 2.590 navi di ogni tipo e grandezza, scortata da decine di corazzate, incrociatori e caccia torpediniere dalle potenti bocche di fuoco, si presentò davanti alle coste sud-orientali della Sicilia. Era il “D-Day”, il giorno dell’attacco alla Sicilia contro le forze italo-tedesche, che porterà all’armistizio dell’8 settembre”.

Calogero Carità

Calogero Carità, storico e già dirigente scolastico di uno dei più grossi licei del Veneto, ha trascorso parecchio tempo negli archivi per raccontare quello sbarco. Il suo libro intitolato “10 luglio 1943, L’assalto degli Alleati alla Sicilia- La Joss Force attacca Licata” in 400 pagine e con foto stupende racconta quelle ore che hanno segnato la storia.

76 dopo a Licata, uno dei luoghi simboli della sbarco, città dove Calogero Carità è nato e vissuto la sua infanzia ed adolescenza, qualcuno  ancora ricorda quei momenti. Abbiamo voluto chiacchierare con il professor Carità, che conosco da tantissimi anni,  della storia che lui ha ben narrato nel suo prezioso volume. Un’intervista senza filtri. Con uno spunto interessante che scaturisce dal suo lavoro.

Una storie piena di storie…

“Il bagnasciuga” del patrio suolo italiano che Mussolini aveva dato come invulnerabile, era stato, invece, violato e superato dai modernissimi mezzi anfibi alleati che, in generale, con molta facilità in pochi giorni scaricarono sulle spiagge decine e decine di migliaia di uomini. L’aviazione italo-tedesca diede un grande contributo contro l’offensiva alleata, provocando moltissime vittime e tanti danni al nemico invasore, mentre le unità di combattimento della U.S. Navy e della Royal Navy non ebbero la possibilità di misurarsi con la temibile Regia Marina italiana che, pur disponendo di modernissime e potenti unità navali, fece la scelta di non combattere e lasciare le navi all’ancora a dondolarsi nelle varie basi navali del Mediterraneo che, cosa molto strana, non ebbero la ventura di subire alcun attacco dagli aerei alleati. Il compito di invadere la Sicilia fu affidato al XV gruppo d’armata il cui comando venne assegnato al generale britannico Harold Alexander, mentre il comando delle Forze Alleate nel Mediterraneo fu assegnato al generale americano Dwigth David Eisenhower. Il XV gruppo comprendeva la 7a Armata americana, al comando del gen. George Smith Jr. Patton, e la 8a Armata britannica, al comando del gen. Bernard Law Montgomery””.

Torniamo a quella notte decisiva…

“Dalle prime ore della notte del 10 luglio alle prime ore dell’alba i gruppi d’attacco alleati, spalleggiati dalle potenti bordate delle navi da guerra che spazzavano ogni cosa e che mettevano in silenzio le batterie costiere, toccarono il suolo italiano. La 7a Armata di Patton aveva avuto assegnata la costa sud orientale dell’isola, compresa nel Golfo di Gela, che andava da Scoglitti a Gela e a Licata, l’8a Armata britannica  la parte orientale, da Pachino e Siracusa, ossia la zona compresa nel golfo di Noto.

La campagna di Sicilia impose un elevato tributo di sangue alle forze anglo-americane: circa 22.000 tra morti, feriti e dispersi, più 20.000 ammalati di malaria. I tedeschi subirono circa 10.000 perdite, tra morti e prigionieri e gli italiani ebbero circa 5.000 morti e oltre 116.000 prigionieri  Sullo sbarco in Sicilia esiste ormai una vasta letteratura. Si sono consumati fiumi di inchiostro anche per attestare l’impegno e il sacrificio del regio esercito italiano, così come tanto si è scritto e detto sul contributo dato dalla mafia alle forze alleate prima e dopo lo sbarco. Non è nostra intenzione, dunque, riprendere e riscrivere fatti da altri già trattati e soprattutto narrati e documentati anche dai protagonisti militari italiani dell’epoca dei cui memoriali si servì quasi l’intera editoria italiana dal 1945 al 1955. Peraltro c’è ancora un proliferare di iniziative editoriali locali, specie dei centri isolani che furono teatro degli sbarchi, degli scontri e delle violenze. Già dai primi anni del dopo guerra Gela acquistò una posizione centrale nelle operazioni dello sbarco in Sicilia, probabilmente anche per le difficoltà incontrate dalla 1a Divisione di Fanteria, al comando del generale americano Terry Allen, non solo sulle spiagge ma anche nel cuore della città dove gli scontri furono molto aspri e con grandi perdite da ambo le parti. Il generale Allen, con il collega Middleton che sbarcò a Scoglitti con la 45a Divisione di Fanteria, aveva il compito di rinforzare il fianco sinistro della 8a Armata britannica e quindi puntare dritto da Gela a Caltanissetta e verso Caltagirone e Centuripe. La 3a Divisione di fanteria, al comando del maggiore generale Lucian K. Truscott, che sbarcò su quattro distinte spiagge di Licata, ebbe invece un ruolo fondamentale per la conquista occidentale dell’isola, compresa tra Agrigento, Trapani e Palermo. E fu proprio la 3a Divisione a consolidare la testa di ponte con gli oltre 55 mila uomini vomitati dal 10 luglio a tutto il mese di agosto dai mezzi anfibi, assieme agli oltre 14 mila veicoli. A Licata, che fu la prima città liberata dagli americani, si stabilì il comando della 3a Divisione di Fanteria. Licata fu anche la prima città dell’Italia fascista a passare sotto l’amministrazione dell’Amgot che si occupava della gestione degli affari civili e fu pure la prima città, liberata dai simboli e dai motti fascisti, ad avere un sindaco e una giunta democratica. Ma dacché nel gennaio del 1944 gli americani lasciarono Licata nessuno ebbe coscienza del ruolo avuto da questa città in questo delicato momento della storia della 2a guerra mondiale. Con la nascita della Repubblica l’oblio ha coperto ogni cosa e nelle tante storie che si prese a scrivere con tanta lena sui fatti dello sbarco del 10 luglio, a Licata fu riservato solo qualche breve accenno, e qualche volta solo in nota. Eppure Samuel Eliot Morison nel vol. IX della Storia della Marina Usa nelle operazioni navali della 2a Guerra Mondiale (1954) dedicò a Licata l’intero cap. 5 e nello stesso modo fecero Albert N. Garland e Howard McGave Smyth che alle operazioni militari a Licata dedicarono ampio spazio nel loro United States Army in World War II (1963), senza contare il grande risalto dato ai fatti post sbarco a Licata da John Hersey nel suo best seller “Una campana per Adano” (1945) che ancora si pubblica con successo negli Usa””.

Quale è il valore aggiunto di questo libro?

“Con questo saggio non intendo affrontare ancora, dato che lo hanno già fatto già tantissimi altri, i massimi sistemi dello sbarco, né vogliamo ripercorrere nuovamente gli eventi della campagna militare in Sicilia, ma, utilizzando i documenti originali, da tempo non più secretati, del Piano Husky, i documenti dell’archivio storico del Comune di Licata che avevamo avuto modo di consultare tanti anni fa nel corso delle nostre ricerche per il libro “Alicata Dilecta”, la corrispondenza con il figlio di Toscani, Gene, che ci ha fornito anche il memoriale del padre e numerose foto, e la corrispondenza con il giornalista-scrittore John Hersey che ci ha permesso di rieditare il suo libro “A Bell for Adano”, vogliamo unicamente descrivere soprattutto ciò che accadde a Licata prima e dopo lo sbarco e durante l’amministrazione civile degli americani dal 10 luglio 1943 ai primi del 1944 sotto la direzione del maggiore Frank Toscani e del capitano Wendell Phillips per restituire a questa città quella centralità nella storia che le è stata strappata.

Abbiamo pure voluto capire cosa ha comportato l’invasione della Sicilia da parte degli Alleati in termini di sofferenze, di nuovi sacrifici e di violenze, dando particolare risalto alle tante stragi di civili e militari di cui gli americani si sono macchiati e per le quali mai nessuno fu veramente chiamato a rispondere seriamente”.

Lei chiama in causa gli americani su alcune stragi di cui non si è parlato fino a 19 anni fa?

“Di numerose stragi si è iniziato a parlare solo dai primi del 2000 e da allora si è aperta una voragine che certamente non porta merito ai liberatori. Purtroppo chi vince scrive non solo la propria storia ma anche quella dei vinti e così le tante Norimberga furono appannaggio solo dei vincitori. D’altronde, oggi come ieri, i giovani dello zio Sam, dall’Afganistan al Vietnam, dalla Sicilia alla Germania e al Giappone si sono sempre macchiati troppo facilmente le mani del sangue degli innocenti e spesso e volentieri hanno calpestato la Convenzione di Ginevra sui diritti dei prigionieri di guerra. Patton urlava ai suoi soldati che non dovevano fare prigionieri e dettava loro regole d’ingaggio in combattimento davvero assurde, dato che chi resisteva in armi e alla fine si arrendeva doveva essere  ucciso. E chissà quante Biscari ci sono state nella nostra Sicilia. Chissà quanti civili sono stati uccisi ingiustamente. I comandi americani cercavano di coprire subito ogni cosa, temendo ripercussioni sui propri soldati prigionieri delle truppe dell’Asse e ripercussioni politiche interne tra il vasto popolo degli italo-americani. Così come ancora oggi si perseguono i crimini di guerra dei nazisti, sarebbe doveroso perseguire, visto che i reati di strage non si estinguono, i crimini di guerra degli americani, anche se sono grandi nostri alleati. Sarebbe un atto di giustizia, seppur tardiva. Non vanno neppure dimenticate le violenze sulle donne e bambini dei famigerati goumier marocchini, spesso giustiziati dai familiari delle vittime nell’indifferenza del comando francese. Non di meno furono le violenze perpetrate dai soldati Usa spesso avvinazzati. A Xitta, frazione di Trapani, scoppiò nella Pasqua del 1944 il cosiddetto “Vespro cittaro” contro i paracadutisti francesi che furono costretti a lasciare il paese”.

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Francesco Pira

Francesco Pira

“Il potere è fare le cose per gli altri”. Questa frase scritta nella piccola sacrestia di un prete cristiano caldeo a Bagdad è quella che mi ha sempre accompagnato nelle mie esperienze umane e professionali. Amo leggere, scrivere, ma soprattutto quando posso narrare. Mi piace, come sosteneva Enzo Biagi, raccontare storie di persone comuni. Scrivo da quando avevo 14 anni. Fin da giovane ho coltivato la passione del giornalismo. Oggi insegno, nell’ambito della sociologia, comunicazione istituzionale e teorie e tecniche del linguaggio giornalistico all’Università di Messina. I miei territori di ricerca comunicazione e giornalismo con focus costanti sul rapporto tra adolescenti e nuove tecnologie, la comunicazione politica, sociale e pubblica. Sono un siciliano che ama il “lato giusto” della Sicilia. Vivo con il sogno prima o poi di trasferirmi negli Stati Uniti.

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