A me gli uomini non piacevano punto. Anzi, li vedevo come un nemico da sfidare, vincere e sconfiggere. Ogni pomeriggio scendevo in strada, come un maschiaccio, ad affrontare “quei cretini” che si radunavano sotto la mia finestra per vedermi, chiamandomi a gran voce. E sfide in bici zigzagando sulle pozzanghere per schizzarli di fango. E palloncini pieni d’acqua che lanciavo contro di loro. E giù botte da orbi. Insomma credevo fossero lì per misurarsi con me, non per la mia beltade. “Elisa-bestia” mi chiamavano, e ne andavo fiera. Vincevo sempre, o quasi. Se ero costretta alla mal parata, mi arrampicavo sull’albero. Tornavo sempre a casa con le ginocchia sbucciate, i vestiti strappati e i capelli scarmigliati.
A 11 anni, la svolta: scopro l’eroe greco Achille dalla lettura accorata dell’Iliade che faceva la mia professoressa De Pretis. Allora esiste anche un uomo alla mia altezza, fiero come me, pensavo. Ambivo ad essere un eroe. Tanto che avevo intensificato le ostilità con quelli che mi correvano dietro e consideravo dei debosciati, neanche fossi sulla piana di Troia. Mentre a scuola ascoltavo rapita e commossa la prof e scrivevo poesie per lei che poi con immensa vergogna le regalavo. Fino a 13 anni però non consideravo l’elemento maschile a disposizione, semmai lo disprezzavo. E compativo mia cugina, di due anni più grande, che si era innamorata.
Successe che in terza media la mia classe fu portata a sciare, in settimana bianca, e tutte si fidanzavano. A me non fregava un’accidenti, ma una mia compagna si struggeva per un ragazzino lentigginoso dai capelli rossi e mi venne voglia di gareggiare con lei, come avevo fatto tante volte negli sport che praticavo. Quello che m’importava era arrivare prima. Conquistarlo fu facilissimo: c’era una melensa canzone d’amore che ascoltavamo in continuazione la sera dell’ultimo giorno tutti insieme, maschi e femmine, in una sala dell’hotel. Lui mi guardava rapito ed io gli sorrisi. La mia compagna di camera ululava che era cotto. L’indomani ci sedemmo vicini in corriera e a un certo punto lui mi prese la mano: eravamo fidanzati! All’arrivo scesi dal bus e non gli dissi neanche ciao. Né gli rivolsi mai più la parola. Seppi che sofferse per anni. Quando mi vedeva arrossiva così tanto che le lentiggini gli sparivano. E io ci godevo pure. Mi ero comportata da vile e pensavo di essere stata eroica solo perché l’avevo umiliato. Né sapevo minimamente che avevo sfidato Amore. E il dio, molto tempo dopo, me la fece pagare.
Ma amore e guerra sono il risvolto della stessa medaglia. Infatti prima degli dei greci c’era un’unica dea dell’amore e della guerra. Il mito non è altro che la spiegazione del differenziarsi dei sentimenti di cui l’animo umano prende coscienza attraverso la consapevolezza delle proprie emozioni.
“La vita, la felicità della vita, il coraggio, la forza, l’impetuosità, la giovinezza, il piacere amoroso sono i veri valori che contano” scrive Jean-Pierre Vernant in La morte eroica nell’antica Grecia (Il melangono). E per questi valori Achille, l’eroe, è disposto a morire. Quando si è giovani, si pensa di essere invincibili, immortali e che nessuna ferita del corpo o dell’anima potrà mai scalfirci. Achille ci ha insegnato che quello che conta è voler essere sempre il migliore, ma quando si gioca a “tutto o niente”, un giorno si perde e si muore giovani come Achille. Per l’eroe, la vita è sacra nella misura in cui un uomo è capace di essere un uomo come si deve, senza scendere a bassezze, accettare compromessi. Un uomo è un uomo solo quando è libero da sottomissioni ed è disponibile a sacrificare la vita, ma non il proprio onore. Perché ciò che importa è la gloria imperitura, lasciare un ricordo immortale di sé. Questa è una metafora sulle scelte che la vita ci presenta e su come affrontarle: “Come se lo splendore divino si fosse posato su di me”. Invece oggi pur di vincere, di affermarsi, di vivere alla grande ma senza grandezza, si muore dentro giorno dopo giorno.