Prove tecniche di resurrezione. Come riprendersi la propria vita, edito da Marsilio, non è il solito manuale. Perché Antonio Polito che l’ha scritto non è il solito guru, coach, terapeuta dei miei stivali. E di quelli altrui. Dove tutti cercano di infilarsi, ma non è mai la misura giusta. Perché ognuno si professa guaritore e suggerisce una tecnica dove gli step sono prestabiliti per raggiungere la felicità, il successo, l’amore. Ma finché siamo uomini e non umanoidi, finché non siamo dei computer ma essi sono al nostro servizio, non possiamo essere programmabili con delle formulette ideate da sedicenti psicologi, che nemmeno sanno cosa successe tra Eco e Narciso o tra Amore e Psiche o tra Marte e Venere, tanto per citare i mitologemi più famosi e dai quali avrebbero tutto da imparare.
Dunque Polito che, per chi non lo sapesse, è stato direttore del Riformista ed è vice direttore del Corriere della Sera, ai mei occhi è un uomo arrivato. Scrive da dio, sta in un posto dove tutti i giornalisti ambirebbero stare, è politicamente autorevole e pure umanamente non se la tira. Sembrerebbe aver capito tutto. Invece in questo libro si mette a nudo e ci dice che è in crisi perché non ha capito niente. Finora. Non è soddisfatto di se stesso, sente un vuoto dentro. Lo sente adesso che ha compiuto 65 anni e teme l’ultima fase della vita. Si mette in dubbio chiedendosi che parte di sé abbia trascurato. Decide allora di intraprendere un viaggio dentro se stesso. Come? Nell’unico modo che conosce: leggendo per trovare risposte e scrivendo un diario che ora condivide con noi.
Lunedì scorso, presentando il libro a Milano, ha esordito dicendo:
“Abbiamo un’ambizione di infinito che ci segue tutta la vita, ma un giorno ci accorgiamo che non è più così. Stiamo invecchiando e andiamo incontro alla morte. Mi sentivo depresso e gli amici mi dicevano di andare da un terapeuta. Invece ho capito che l’unica cosa che potevo fare era scriverne. E’ stata per me una libroterapia. Certo, l’inizio è plumbeo, poi piano piano ho trovato delle ragioni per ricostruire il rapporto con i figli, quello con il mio corpo e anche con le mie idee per vedere di ricostruire una vita nuova. Risorgere. Usare la parola risurrezione è un po’ blasfemo, ma sono giunto alla conclusione che solo una vita buona e giusta può essere una resurrezione”.
Vittorio Feltri, che era presente e aveva ampiamente commentato il libro sul quotidiano Libero che dirige, gli ha gettato il salvagente dell’autoironia: “Tu sei un’apprendista della vecchiaia, io ho dieci anni più di te e ti dico che invecchiando si rifiuta il conformismo, tipico delle persone giovani: te ne strafotti del pensiero degli altri, non hai paura delle critiche e, se uno te le fa, lo consideri un poveraccio. Ho 75 anni, vedo morire tanti miei amici…”, fa le corna e chiosa: “Sopravvivere è bellissimo”.
Vittorio Feltri, l’uomo più vitale che abbia conosciuto, benché dissimuli il suo stato d’animo con un atteggiamento disincantato e un abbigliamento serioso, ha adottato la stessa filosofia della regina Vittoria, che diceva: “Non mi interessa cosa gli altri pensano di me, ma cosa io penso di loro”. E sarebbe meglio farne un principio di vita per tutelare la propria autostima, a prescindere dall’età; molti risparmierebbero i soldi del terapeuta. Ma Feltri è un uomo singolare, un velista della vita, anche se non ha mai condotto una barca in vita sua, perché ha sempre avuto la meglio nelle tempeste e, raggiungendo infine la terraferma, si è fatto una risata senza voltarsi indietro. Questo non significa che uno come Feltri non si maceri dentro, pur seduto in poltrona, e cerchi esattamente come Polito la propria anima. Le vie sono molte, ma la resurrezione è una sola.
Per risorgere, bisogna morire. Si può fare esperienza della morte, come insegnavano gli antichi greci nei riti misterici, scendendo nell’Ade, nelle parti più recondite di se stessi, nel nostro inferno. E’ un po’ come tuffarsi: bisogna prendere coraggio, gettarsi nelle profondità dell’ignoto, poi si risale alla superfice riportando su l’inconscio. E’ una nuova consapevolezza.
Ma nel libro c’è molto altro: se volete avere indicazioni per trovare la rotta giusta, compratelo. Ognuno può fare l’incontro della sua vita dentro di sé, solo il nome cambia: anima, coscienza, Dio, daimon…
Mi devo interrompere, suonano alla porta: “Sono una testimone di Geova e voglio porle un quesito: Dio si occupa personalmente di noi?” Rimango irritata da quel ‘personalmente’, quanta presunzione in una malcelata sottomissione. Rispondo: “Personalmente il mio dio mi ha appena telefonato”.