L’Ambasciata italiana e l’Istituto Italiano di Cultura mi mandano di tanto in tanto inviti a eventi scientifici e culturali presso la nostra prestigiosa sede diplomatica a Washington DC.
Arrivare dal mio ufficio di Reston, Virginia, a Whitehaven Street richiederebbe meno di mezz’ora, se non fosse che i tempi raddoppiano durante le rush hour, facendomi a volte pentire di aver ceduto alle lusinghe dei nostri addetti scientifici e culturali “dispiegati” in USA.
Oggi, 16 Ottobre, non mi pentirò. E non perché non ci sia traffico (immancabile), ma perché la presentazione sarà di grande interesse: sto per incontrare un protagonista del panorama letterario italiano contemporaneo: Franco Arminio.
L’evento è intitolato “Instapoets: Franco Arminio and the new era of Italian poetry” (Franco Arminio e la nuova era della poesia italiana). Si tratta di una lettura di poesie organizzata dall’Ambasciata e dal nostro Istituto di Cultura con la collaborazione di Lucia Wolf, responsabile della parte italiana della collezione letteraria presso la Library of Congress.
Arrivo nella sala dell’evento un paio di minuti prima che la presentazione abbia inizio.
Di mestiere faccio il “paesologo”
Arminio esordisce così nella sua presentazione che è un po’ a metà strada con uno spettacolo.
“Paesologia” è la “materia” di cui lui si professa esperto, dove “paese” non significa “stato”, ma significa proprio il “paesino”, quello che immaginiamo abbarbicato su una montagna, quello dove vivevano i nostro nonni, quello che, per raggiungerlo, ci vuole almeno un quarto d’ora di macchina dall’ultima pompa di benzina.
“Io sono nato a Bisaccia, in Irpinia, e ancora vivo a Bisaccia”.
Arminio non parla inglese. Ilaria, una brava interprete totalmente bilingue, fa da intermediaria col pubblico prevalentemente non italofono. Sul palco arriva anche Livio, il figlio del poeta, con una chitarra, pronto ad accompagnare le letture del padre con degli accordi.

Franco si inginocchia davanti al pubblico.
“Le poesie andrebbero sempre lette così,” dice, “come una preghiera.”
Arminio inizia a leggere a voce alta, mentre le slide dietro di lui propongono la poesia stessa con la traduzione in inglese:
Mai vista una primavera così bella.
La luce sembra impazzita,
è un diamante la testa del serpente,
il silenzio concima le ginestre,
sono quieti i paesi da lontano.
Non insistere a dolerti.
Ogni albero è tranquillo e felice di vederti.
Per chi fosse alla ricerca della poetica di Arminio, questa poesia sembra già offrire parecchi indizi.
Il tipo umano raffigurato insiste a dolersi, come se in quel dolore si crogiolasse un po’. Non è ovviamente un superuomo quello raffigurato, un “uomo bionico” forte davanti alle asprezze della vita. Semmai è l’esatto contrario dell’uomo bionico: è un “robot biologico”. Un robot in cui la mente è il software, mentre il corpo, la vista e la pelle sono l’hardware “naturale” con cui la persona si interfaccia alle sensazioni del luogo in cui vive.
Uscendo dal paesino, camminando nel bosco e apprezzando il silenzio, l’uomo si riconnette finalmente con il suo corpo e con la natura.
Un’altra poesia:
Il dolore che ti arriva
guardalo, lavalo,
tienilo con te.
Il dolore che tieni
non vola via alla cieca,
ti fa compagnia.
Il dolore serve contro
la ruggine, contro le muffe delle abitudini
Ecco, ora tu e il dolore
siete contenti di stare assieme:
azzurro è il cielo.
un signore ti ha detto
buongiorno
Anche qua l’uomo si riconnette con le sue sensazioni. Il poeta invita a preservarle e a coltivarle anche quando queste sono negative, come nel caso del dolore. Sono le sensazioni che ci tengono vive e che mantengono attivo il nostro robot biologico.
Nella poesia un signore sconosciuto saluta. Questo piccolo atto di vicinanza umana è oramai desueto nelle grandi città. Accade ancora nei piccoli centri urbani, nei paesi appunto.
Non pensarla la gioia, sentila,
è una fioritura nella carne,
è il maggio delle ossa,
l’aprile degli occhi.
La gioia non è un fatto,
una cosa, un luogo.
La gioia crea spazio,
scioglie, fa il vuoto.
Ecco ripetuto per la terza volta di fila l’invito del poeta a non essere cerebrali: la gioia non va pensata. Va percepita e vissuta il più possibile fisicamente lasciando che occupi i nostri spazi.
La civiltà occidentale vista dagli uccelli:
siete il tramonto
perché avete accettato facilmente
il fatto che siete tutti senza luce,
specialmente chi vi conduce.
L’accusa è solo sussurrata, ma appare pesantissima. La natura ci guarda e ci giudica: l’umanità rischia il tramonto a causa del suo rapporto non più in simbiosi con la natura.
E comunque pure se moriamo
non è che poi possiamo
morire un’altra volta.
Allora andiamo nella giornata
da signori,
il bene sia benedetto,
benedetto l’andare in giro
e ancora il pranzo
e scrivere a qualcuno, leggere,
camminare,
guardare un muro.
Un invito dell’autore, coerente con quelli precedenti: occorre vivere senza avere paura di morire e godendo della propria ritualità, anche quando questa non è foriera di particolari significati.
A questo punto Arminio sospende la sua lettura, condivide i ricordi dell’osteria di famiglia e di come gli avventori cantassero tutti insieme. Non sarebbe coerente l’autore se non provasse a riprodurre quel momento rompendo la lastra di vetro virtuale che separa gli spettatori da lui sul palco. Cantare una canzone è lo strumento con cui il poeta abbatte l’ostacolo. Qui in USA la cosa avviene con Bob Dylan e i primi versi di Knockin’ on heaven’s door.
Scende dal palco. Poi chiede al pubblico quali lingue diverse dall’inglese e dall’italiano ognuno conosca. Segue un invito alle persone a prendere il microfono e a tradurre quest’ultima poesia in quella lingua “all’impronta”.
La magia è avvenuta. L’atmosfera del paese è stata appena riprodotta “in vitro” nella sala dell’ambasciata. Se la tesi da dimostrare era quella che tutto il mondo è paese, l’esperimento ha avuto successo.
Ma lo spettacolo non è finito. C’è un’altra poesia:
Spesso gli uomini si ammalano
per essere aiutati.
Allora bisogna aiutarli prima che si ammalino.
Salutare un vecchio non è gentilezza,
è un progetto di sviluppo locale
Camminare all’aperto è vedere
le cose che stanno fuori,
ogni cosa ha bisogno di essere vista,
anche una vecchia conca piena di terra,
una piccola catasta di legna
davanti alla porta, un cane zoppo.
Quando guardiamo con clemenza
facciamo piccole feste silenziose,
come se fosse il compleanno di un balcone,
l’onomastico di una rosa.
Eccola la poetica “paesologa” uscire totalmente allo scoperto nella sua dimensione di nuova etica laica.
In un mondo in cui il “progresso” appare sempre più come una corsa all’impazzata verso il baratro ecologico, la soluzione passa dalla riscoperta della vita del paese. Passa dal contatto fra gli uomini. Il rispetto che si deve alle persone, ma anche alle piante e alle cose, diventa l’antidoto alla narrazione moderna che ci porta al consumismo e a una specie di cecità delle cose semplici ma affascinanti che ci circondano.
Difficile essere felici se accettiamo un modello di vita che costantemente alza l’asticella di ciò che ci serve per esserlo.
Facile essere felici se riscopriamo il nostro corpo e ci connettiamo di nuovo alle cose semplici che ci circondano.
Attenzione però. Il poeta non rinnega la modernità. Non invoca un ritorno al passato. Non è un luddista che indica nelle tecnologie moderne il nemico. Al contrario, infatti. Egli è, a tutti gli effetti, un uomo del nostro tempo. Non solo Arminio usa il web per promuovere la sua opera, ma in essa egli si pone domande dannatamente serie e moderne sul futuro dell’umanità arrivando perfino a indicare una strada.
Arminio è troppo modesto (o forse troppo disilluso) per pensare che un messaggio gridato possa oggigiorno essere il mezzo per raggiungere alcunché, ma le sue poesie sono lì e parlano per lui. La parola lirica appare ora come un manuale di istruzioni che può guidare l’uomo sulla via della decrescita felice.
Ma lo spettacolo non è finito ancora. Arminio prende un libretto e legge alcuni suoi aforismi (lui le chiama “cartoline”, dal libro “Cartoline dai morti”) che ci fanno scoprire un suo lato diverso. Una cartolina su tutte:
Sono sempre stato un tipo sfortunato. Il giorno del mio funerale si parlava del funerale della figlia del farmacista, morta il giorno prima.
Non so voi, ma io ci ritrovo il Teatro dell’Assurdo di Beckett e Pinter in questi versi. In un mondo in cui c’è poco di cui stare allegri, davanti a una natura matrigna e a una vita che stenta a trovare un senso, l’autore alza la testa, guarda in faccia la sua condizione con un ghigno beffardo ed esplode in una risata.
Ecco, una bella risata regalata al pubblico. Così termina la lettura di poesie di Arminio.
Vado da lui per l’immancabile selfie e per fargli alcune domande.

“Qual’è la sua prossima tappa dopo Washington?” chiedo.
“Andrò prima a New York per un altro evento. Poi a Hartford, in Connecticut, per incontrare mia zia, la sorella di mia madre che era emigrata in America tantissimi anni fa. Le porto uno scialle che apparteneva a mia madre, che ora non c’è più. È un atto importante per me questo.” risponde Arminio.

“Cosa pensa lei degli Stati Uniti? Per un paesologo, gli USA devono incarnare la negazione di ciò in cui crede…”
“In realtà non è così. Io non giudico italiani, americani o altro. Quello che mi interessa è il rispetto per le persone, per gli animali e per le cose, una dimensione che ognuno dovrebbe riscoprire nel mondo in cui vive. Noi umani diamo per scontato di essere protagonisti al centro della natura, ma non è così. Noi siamo comparse di un sistema molto più grande. Sarebbe meglio per noi se ritrovassimo la nostra dimensione naturale dentro la natura.”
Spiego al poeta che sono columnist per la Voce di New York e che scriverò un articolo sull’evento.
Lui, molto gentilmente, mi dà la sua email e mi manda questi versi inediti per celebrare la sua visita a Washington facendone dono, in esclusiva, ai lettori della Voce di New York.
Bisogna spaccare le pietre
per fare nuove strade,
da cuore a cuore
da mano a mano.
È il lavoro
che fa la madre di Pietro
A sant’arsenio quando
la mattina
raccoglie le prugne per i malati
di mente che escono
a passeggiare,
È il lavoro di Lucia
a Washington
che raccoglie ogni giorno
libri belli
per la Biblioteca
del Congresso,
È il lavoro di chi ha fatto
la guerra
con la neve nelle scarpe,
di chi emigrò
con due sacchi di farina,
triste per aver lasciato il mulo
la terra e le sue spine.
Franco Arminio. Composta il 17 ottobre 2018 in viaggio tra Washington DC e New York City.
Sono commosso.
Per la bibliografia dell’autore, si può fare riferimento alla sua pagina WikiPedia.