Voglio cominciare con un altissimo elogio del 1920 da una lettera scritta da Nicolas Murray Butler, Presidente della Casa Italiana, al giudice John J. Freschi, “a New York City notable”: “As I have said on many public occasions, we have great need here in America of more of the Latin temperament, the Latin point of view, and the Latin Love of beauty, whether in nature or in art. The Casa Italiana and the Istituto can accomplish wonders in advancing all of these purposes” (Michael Rosenthal, Nicolas the Miraculous).
Alla fine è l’ideale che persegue il nostro Giornale dopo 97 anni, proprio quasi un catenaccio, in quel magistrale connubio con la libertà e il primo emendamento: Liberty Meets Beauty.

La citazione è ripresa dal prezioso ed encomiabile saggio di Barbara Faedda, associate director of the Italian Academy for Advanced Studies at Columbia University, From Da Ponte to the Casa Italiana. A Brief History of Italian Studies at Columbia University (Columbia University Press, New York, 2017).
Il volume descrive il laborioso cammino della cultura italiana nella City a cominciare da The dawn degli studi di italiano, da quell’eccezionale maestro Lorenzo Da Ponte, l’ebreo Emanuele Conegliano veneto di Ceneda, convertito e battezzato dal vescovo che gli diede il nome.
Di fama mondiale per i suoi trascorsi avventurosi in giro per l’Europa e librettista di Mozart (i portentosi Nozze di Figarodel 1786, Don Giovannidel 1787 e Così fan tuttedel 1790) con la conseguente polemica sui loro rapporti di collaborazione.
Eppure dopo le sconvolgenti esperienze e la mostruosità di scritti nel Veneto di Casanova e nelle corti europee, la sua seconda vita cominciò negli USA prima a Filadelfia e poi nella City, ove aprì una libreria e insegnò italiano fino ad essere chiamato nel 1825 alla Columbia, primo professore di letteratura italiana: «but that Professor be not considered on of the Board of the College».
Poi da un lancio del Circolo italiano, l’arrivo di Giuseppe Prezzolini, fondatore di quella gloriosa Voce(riverbero della nostra), il progetto e la realizzazione della Casa Italiana, la pietra angolare con la scatola di zinco ad agosto del 1926 e la solenne inaugurazione il 12 ottobre 1927, il Columbus day, due mesi dopo l’esecuzione di Sacco e Vanzetti e alla presenza di Guglielmo Marconi.
Con equilibro e senza posizioni preconcette, da vera storica, Barbara entra nel merito dei rapporti con il regime fascista, dalla benedizione di Benito Mussolini e dalla promessa di «possible contributions from forniture manufacturers and importers in modern and antique works of art», risoltosi in un invio di “duplicates from an antique furniture”, una “bastar furniture”.
Ma di grande rilievo è la documentazione degli stretti rapporti con Mussolini di molti protagonisti della direzione della Casa Italia e l’ingerenza di suoi emissari, ma è soprattutto particolare l’ambiguità di posizione di Prezzolini, che pur confessando di essere amico di Mussolini cerca di sganciarsi separando l’ideologia politica dalla prassi culturale.

Nel bene e nel male la realizzazione di questo grandioso progetto della diffusione della cultura italiana si collocò in pieno regime fascista. Perciò la controversa posizione di Prezzolini e le feroci contestazioni, ancor più gravi dopo la conquista dell’Etiopia.
E fu realmente difficile per dirigenti e professori della Casa Italia barcamenarsi tra un Governo italiano sempre più reazionario e dittatoriale, ma che forniva contributi finanziari, e l’America che andava prendendo coscienza dell’atrocità del fascismo nonostante le pressioni di gruppi e associazioni di pretta marca fascista anche negli USA: «the Casa was forces to become more adaptable and flexible about its cultural endeavors» (p. 37).
Questa lunga e controversa traiettoria descrive Barbara attraverso una documentazione precisa e puntuale, senza sbavature e senza pregiudiziali. I rimandi alle fonti originali e i riferimenti bibliografici di approfondimento attraverso una notazione messa alla fine per non tediare o distrarre il lettore occupano le pagine 75-89.
A testimoniare questa serietà di ricerca tre forewords: la prima del prevost della Columbia John H. Coatsworth, poi quella dell’ambasciatore italiano alle Nazioni Unite Armando Varricchio e a coronamento quella degli auguri di Bill de Blasio: «The book recounts a fascinating and largely unknown chapter in Italian-American and New York City history». E lo afferma a lode di quella lingua franca, perché «I have this history in my bones».
Coronano l’opera tre appendici, una sulle acquisizioni di libri italiani a partire da Da Ponte della Columbia University di Meredith Levin operatrice delle librerie universitarie della Columbia, l’altra sul lavoro prezioso di The Casa Italiana Educational Bureau (CIEB) e le straordinarie iniziative in ambito socio-linguistico di Javier Grossutti.
L’appendice che più mi ha coinvolto è Anatomy of the Casa Italiana’s Façade di Francesco Benelli dell’Università di Bologna. E mi rivedo un maggio portentoso del 2007 a risalire quel tratto della Amsterdam Street sul lato opposto alla meravigliosa facciata neo-rinascimentale, altro luogo di memoria, un tipico palazzo italiano, calato in mezzo a case insignificanti o rinomati grattacieli come l’Empire o il Chrysler.
E poi attraverso la strada e vado alla lapide e passo il sottopassaggio per quell’incrocio con la 117 Street, entro nel cortile della Columbia, ma non trovo Casa Italia. Essa si trova di fronte, dal 1990 Italian Accademy for Advanced Studies.
L’entrata ariosa con i suoi quadri, l’ascensore e l’incontro con Barbara, gioviale aperto come quello di una italiana e per di più sarda.
Consegno la mia Stratigrafia della storia di Prizzi, per la quale Antonino Giappina titolò “L’onore di Prizzi” su America Oggi. In confronto a Da Ponte sono umile ed ignoto ospite. E Barbara ci conduce, io e mia moglie, nella sacra penombra del teatro e nelle stanze che mi abbagliano con gli scaffali della biblioteca.
Ero andato a New York con le prevenzioni dei western e dei gangster, ma soprattutto della egemonia sul mondo. E da quel giorno, come molti soffrono del mal di Africa, io sono malato di New York, delle sue strade, dal Central Park con la carrozza di Rosario al Rockefeller Center alla Fifth, dei tanti luoghi dell’immaginario ai suoi meravigliosi abitanti, dei tanti amici, proprio tanti che vi ho trovato. Perciò quel primo viaggio e la visita alla Casa Italia sono continuati e non trovano requie.