Quando accolgo i miei studenti al primo giorno di ogni nuovo semestre, una cosa su cui posso sempre contare è qualcuno che mi chiede, esplicitamente o implicitamente, “In che modo, questo corso, mi aiuterà a trovare un lavoro?” Se sei un educatore, oggi, sarebbe meglio, per te, avere la risposta pronta, perché, almeno dal punto di vista dello studente, questo è lo scopo del college e questo è lo scopo dell’educazione nel 21esimo secolo.
La monetizzazione della conoscenza è l’attitudine attuale verso cui tende l’educazione. Gli studenti vogliono sapere se i soldi spesi per l’educazione torneranno indietro attraverso il loro futuro stipendio. Perciò chiedono: “Quanto posso guadagnare da questo?”. Innumerevoli siti web provano a insegnarglielo e offrono consigli sulle competenze che saranno piu richieste dai datori di lavoro. A noi, agli educatori, offrono consigli su “Come promuovere le abilità di cui gli studenti avranno bisogno durante il loro percorso educativo e oltre”. E mentre la risposta più frequente è quella delle 3C, collaborazione, comunicazione e pensiero critico, non c’e accenno al concetto che chiamavamo “capitale culturale”, cioé “l’accumulazione di conoscenza” che una volta portava non solo al successo professionale ma che simboleggiava anche il proprio status sociale o la propria posizione nella società. Questo concetto oggi viene considerato irrilevante o addirittura, obsoleto. L’enfasi, oggi, è posta sulle competenze, competenze distinte e particolari, connesse alla professione che si desidera perseguire. Le possibili ragioni di queste trasformazioni sono tante: l’alto costo della vita, il rapido cambiamento tecnologico che ci proietta in avanti invece che all’indietro per farci stare al suo passo, o forse la frammentazione di una società che ha respinto qualsiasi idea di una cultura comune da trasmettere.
Storicamente, l’istruzione è stata vista come un percorso verso l’autorealizzazione, un modo per diventare il proverbiale individuo ben formato. In altre parole, diventare una persona acculturata ti dava una migliore possibilità di felicità e di benessere. L’idea affonda le sue origini in Platone che vide lo scopo dell’educazione come qualcosa in grado di portare felicità. Ma il post-modernismo ha cancellato i confini tra cultura alta e bassa e, alla fine, ci ha portato un anti-elitarismo che svaluta la “cultura”, intesa come gerarchia. Oggi essere una “persona acculturata” è visto, di frequente, come qualcosa di antitetico all’uguaglianza e alla democrazia. C’è di più: i principi del post-modernismo sono indirettamente connessi alla frammentazione della società in gruppi distinti, ciascuno dei quali viene identificato in una micro-società, al costo di minare qualsiasi nozione di omogeneità, della comunanza implicita di “nazione”. Una nazione, oggi, è fatta da tante “mini-nazioni” costituite, a loro volta, da distinte identità culturali. Al posto di quella omogeneità, abbiamo ciò che è essenzialmente una filosofia utilitarista, che dà valore ai risultati tangibili. Ma chiediamoci: se la ricchezza porta felicità, allora il ruolo dell’educazione dovrebbe essere legato ai guadagni in una società materialista? Questo, quindi, potrebbe essere il nucleo filosofico del dibattito sull’educazione, nel 21esimo secolo.
Essere un individuo “acculturato” potrebbe essere una cosa meravigliosa, ma chi ci da il diritto di snobbare le realtà della vita che richiedono il massimo guadagno? In un mondo ideale, gli studenti avrebbero il tempo e i soldi per studiare Platone e Socrate, la poetica di Dante e di Milton, ecc. ecc. Ma questo non è un mondo ideale e gli studenti hanno bisogno di imparare i modelli informatici, la contabilità, l’assistenza infermieristica o altre professioni richieste dal mondo contemporaneo. Come insegnanti dobbiamo riconoscere il mondo in cui vivono oggi e trovare il modo di instillare in loro una nozione significativa di cultura alla quale possano relazionarsi.
Come docente sono costernata dallo stato dell’istruzione oggi, in particolare per la svalutazione delle arti liberali per cui dobbiamo combattere quotidianamente: prima contro gli amministratori che tagliano i fondi per loro e, poi, contro gli studenti, che non riescono ad apprezzare la loro utilità. In rare occasioni, quando abbiamo qualche buona notizia, possiamo gioire. Qualche giorno fa è uscito un articolo che affermava che a Google, il Sacro Graal del mercato del lavoro, la top seven delle caratteristiche per avere successo sono quelle che chiamano “soft skills”. Fra queste troviamo “essere un buon istruttore; saper comunicare e ascoltare; avere buone intuizioni sugli altri, essere empatici verso gli altri ed essere di supporto ai colleghi….” La sorpresa degli analisti è stata davvero grandiosa rispetto a questa conclusione. Se questi dipendenti di Google sono stati assunti per le loro capacità tecniche, allora perché “Quelle caratteristiche sembrano più simili a quelle che si ottengono in letteratura o in teatro, rispetto a quelle dei programmatori?” Di conseguenza, gli analisti si sono chiesti se fossero queste le caratteristiche utili ad aprire le porte a tutte le opportunità.
La filosofia utilitaristica, con la svalutazione della “cultura” come nucleo, insieme all’onnipresente uso della tecnologia come mezzo di insegnamento e apprendimento, ha già preso il suo sopravvento sui giovani. Noi professori assistiamo quotidianamente all’impatto che questi fattori hanno in classe. L’attenzione degli studenti è diminuita in modo allarmante. Le loro competenze di lettura, a causa dei media visivi onnipresenti e il fatto che apprendere attraverso i libri sia considerato antiquato e richieda tempo, sta precipitando costantemente. Come professoressa di letteratura posso attestare che molti dei libri che ho assegnato dieci anni fa, o anche solo cinque anni fa, sono illeggibili per gli studenti di oggi. Per l’attuale schiera di studenti, il miglior libro è quello più breve e per poter interagire con un libro, questo deve riflettere la propria vita. Come la società, in generale, stanno cercando di riaffermare i valori con cui sono entrati, non per conoscere o capire quello con cui non sono d’accordo. Se guardano i programmi di news guardano “notizie di nicchia”, che ratificano le loro opinioni prestabilite piuttosto che sfidarli a formare nuovi punti di vista.
Certamente, le notizie non sono tutte brutte o negative. Niente di tutto ciò significa che gli studenti non imparino. Lo fanno semplicemente in modi diversi e noi educatori abbiamo la sfida di soddisfare i loro bisogni e ad allargare i loro orizzonti – a volte, nonostante la loro resistenza. Le loro abilità sono visive, quindi cerchiamo di usare risorse più varie come i talk di TED, le clip di YouTube e i documentari. La loro soglia dell’attenzione è breve, quindi suddividiamo i compiti in slanci di attività frammentari, come l’ascoltare l’insegnante o ascoltarsi l’uno con l’altro. Amano parlare tra di loro o lavorare in gruppo, quindi facciamo fare loro delle presentazioni, dopo una dovuta preparazione, naturalmente. Lottano per trovare un significato nella “cultura”, quindi scegliamo artefatti culturali che siano significativi per loro e che potrebbero non riflettere i valori e le prospettive egemoniche. In breve, li prepariamo per un lavoro a Google senza che nessuno se ne accorga.
Traduzione di Giovanna Pavesi