
“Nel momento in cui uno riesce a mettere in chiaro la propria concezione del mondo e della vita, allora può anche arrischiarsi a dare una qualche risposta sul problema dell’esistenza di Dio. Io la rivelazione diretta di Dio non l’ho avuta, ma non escludo che altri l’abbiano ricevuta e che possa diventare una realtà per chiunque”.
Così rispondeva a un intervistatore il ministro Loris Fortuna, il padre delle leggi sul divorzio e sull’aborto che cambiarono l’Italia. E così inizia il bel libro Loris Fortuna. Quel ‘matto’ sano che riuscì a cambiare l’Italia (Bonanno Editore), scritto dalla moglie Gisella Pagano a 32 anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 5 dicembre 1985, e presentato a Udine, sua città di adozione, il 5 dicembre 2017, alla presenza dell’amico e compagno socialista Claudio Martelli.
Alla fine – forse – Loris Fortuna ha incontrato Dio. O semplicemente ha avuto la rivelazione che quello che aveva fatto nella sua vita e della sua vita l’aveva fatto insieme a Dio. Sostenuto dalla propria coscienza. Che per Socrate era il daìmon, quel dio interiore che ci dettava la via, l’unica giusta, possibile. I democristiani ‘baciabanchi’, chiamandolo “il diavolo Fortuna”, riconoscevano inconsciamente che senza diavolo non c’è Dio, perché se non si mette in discussione Dio dentro di noi, egli per noi non esiste.
E Loris Fortuna ha affrontato tutte le battaglie sociali, combattendo una lotta interiore con se stesso che l’ha stremato. Lo si percepisce dalle lettere scritte nell’arco della sua vita. Ogni decisone presa per lo sviluppo della società civile è stata prima sofferta nella sua interiorità.

Voleva fossimo liberi, tutti. Voleva che le donne fossero rispettate e avessero uguali diritti nella vita, nel matrimonio, con il divorzio, con l’aborto assistito. Voleva che ognuno potesse sciogliere un legame quando non c’era più amore. E che ogni donna potesse decidere della propria esistenza, se diventare madre o meno. Perché solo lei sapeva cosa questo potesse comportare. Loris Fortuna ha cambiato le donne: le ha fatte padrone della propria esistenza. Lotte che hanno caratterizzato la mia crescita adolescenziale come donna e che hanno affermato quanto portavo nel cuore: che avevo pari dignità di un uomo e potevo autodeterminarmi, cosa che mi venne sempre disconosciuta dalla gretta mentalità fascista di mia madre.
Non ho conosciuto Loris Fortuna, benché mi fossi fidanzata con suo nipote circa un anno prima della sua morte. Ma in Italia tutte lo abbiamo conosciuto. La sua ultima proposta di legge: “Norme sulla tutela della dignità della vita e disciplina della eutanasia passiva” finalmente oggi vede una parziale attuazione nella legge sul biotestamento. Essa introduce la possibilità di decidere se e come farsi curare quando non si sarà più in grado di esprimersi. Se l’accanimento terapeutico deve essere foriero di indicibili sofferenze fisiche, la decisione di lasciare un po’ prima la propria vita, ma con dignità, spetta solo al malato. Come del resto decise Giovanni Paolo II che disse: “Lasciatemi andare alla casa del Padre”. Ma il genere umano è ipocrita: pensa che comportarsi bene sia solo un’esternazione pubblica. E lavandosi le mani si lava la coscienza, come quei medici obiettori di coscienza che, temendo il giudizio universale, cercano di tenere in vita artificialmente i propri pazienti senza provare alcuna pietà per le loro sofferenze. Dunque questa legge, con trent’anni di ritardo, è un primo passo verso l’eutanasia, la bella morte.

“Quando ero studente, a vent’anni, – scrive Fortuna – durante la guerra venni arrestato dai tedeschi con alcuni compagni; fummo processati due volte, ed entrambe le volte fu chiesta per noi la pena di morte. Mi posi il problema della fucilazione e scoprii, con molta malinconia, che la vita è bella. Perciò decisi che ogni giorno doveva essere vissuto del tutto, a tempo pieno. Così, quando la fine arriva, non sei più sorpreso, non hai nessun rimpianto, se hai fatto quello che potevi. Molte cose dovrai troncarle a metà: ma non vuoi lasciare proprio niente da compiere ai pronipoti?”
I giudici che nel 1944 tramutarono la pena di morte di Loris in tre anni e mezzo di carcere furono esautorati dai tedeschi che lo deportarono in Germania. Riuscì ad evadere dal campo di concentramento un anno dopo, magrissimo e senza forze, grazie ad un compagno di prigionia polacco che lo portò sulle spalle per 30 chilometri. La sua vita non è stata un disegno divino? Oppure è stata la determinazione di sopravvivenza di un uomo speciale, che ha saputo farsi amare ed è stato aiutato nel momento del bisogno? Forse la risposta è una sola, la medesima.