
L’ “italianità”? Un concetto che la storia e la globalizzazione hanno reso troppo angusto. “Angusto” è l’aggettivo usato opportunamente da Mario Martinelli, nel suo saggio pubblicato nel Capitolo dodicesimo della nuova edizione di un volume – La rete italica. Idee per un Commonwealth, di Niccolò d’Aquino – che parte proprio da quel presupposto: parlare semplicemente di “italianità” nel mondo non basta più. Non basta per varie ragioni, e la prima e più evidente è quella demografica: gli italiani non fanno più figli. La previsione di molti demografi è decisamente fosca: di questo passo, tra una novantina d’anni i 58 milioni di abitanti del Belpaese si saranno ridotti a 8-9 milioni di persone. Da qui, si comprenderà bene che, se la difesa di tutto il patrimonio culturale italiano – un patrimonio millenario che affonda le proprie radici nella tradizione greco-romana – competesse ai soli “italiani”, molto probabilmente quella che d’Aquino chiama la “civilizzazione italiana” sarebbe condannata a finire “nei musei, nelle pinacoteche e nelle biblioteche”.
E questo – si badi bene -, ben lungi dal costituire una dissertazione di nicchia riservata ai pedanti, è in realtà un tema di grandissima attualità. Perché in Italia negli ultimi mesi è sempre più vivo il dibattito che vede opporsi, politicamente e non solo, due correnti di pensiero: da un lato i difensori della globalizzazione e del multiculturalismo, dall’altro i nuovi crociati del “sovranismo”, se così si possono definire quelle correnti di pensieri che si basano sul principio della difesa dell’identità e dei confini nazionali. Una tendenza che, naturalmente, non sta prendendo piede solo in Italia: e per rendersene conto, basti dare uno sguardo a chi in questo momento occupa lo Studio Ovale. D’Aquino, però, sembra quasi, con il suo nuovo lavoro, voler colmare una lacuna intrinseca al dibattito: perché ci siamo spesso chiesti cosa l’Italia abbia da perdere con la globalizzazione, o, per dirlo alla Bassetti, con la “glocalizzazione”, ma ancora nessuno ha approfondito cosa, nonostante criticità e ostacoli, abbia da guadagnarci. Ed è proprio nel rispondere a questa domanda che si può introdurre il concetto di “italicità”.

Un concetto che deve la propria formulazione a Piero Bassetti, a cui il libro di d’Aquino, non a caso, è dedicato in qualità di “Maestro anticipatore”. Perché il suo lavoro su questo fronte – come dimostrano i saggi a sua firma inclusi nella raccolta – dura da decenni, ed è stato in grado di fornire, alla domanda di cui sopra, una risposta in positivo. Per lui, gli italici sono dei “post-italiani” che, tramite l’adesione e la confluenza nell’Unione Europea (ma non solo), “stanno acquisendo una nuova identità, per non chiamarla statualità”. Basata sull’“italian way of life”, sul “soft power” italiano, sempre più riconosciuto e legittimato in tutto il mondo. E se gli italiani veri e propri sono sempre di meno, gli italici non temono crisi demografiche: perché il numero stimato di persone di origine italiana o con connessioni italiane è di 300 milioni. L’italiano è la quinta lingua più studiata al mondo. E la lingua, è bene sottolinearlo, è un tema identitario per eccellenza: e qui si vede come la “glocalizzazione” possa portare, contrariamente a quanto si dice, non alla scomparsa dell’identità ma a un suo potenziamento. Non a caso, proprio alla lingua sono dedicati alcuni dei contributi nella raccolta di d’Aquino, tra cui il saggio di Stefano Rolando (La “parlabilità” della lingua italiana nell’era della trasformazione multietnica) e quello di Bassetti (Il plurilinguismo italico tra internet, sms, e televisioni).
Se dunque Bassetti è stato, sull’argomento, il “Maestro anticipatore”, anche lo stesso D’Aquino è certamente un pioniere. Perché, come giustamente viene ricordato nella prefazione, nel 1994, quando già faceva parte della “ristretta Banda Bassetti” (parole sue), condusse una interessantissima ricerca sui media italiani nel mondo eloquentemente intitolata I media della diaspora. Un volumetto reso possibile da un lavoro lungo, complicato e innovativo, che mise in luce come in giro per il mondo ci fossero oltre “400 testate di italianità”. Dieci anni dopo, una sua nuova ricerca ne contava già 700, includendo anche i primi siti internet. Un dato fondamentale per capire, peraltro, l’incredibile evoluzione del concetto di “italicità” negli ultimi decenni. Non a caso, ha spiegato D’Aquino, il taglio prescelto per il libro è cronologico, anzi “cronistorico”: i saggi non sono cioè raggruppati per argomento, ma ordinati per data, in modo da evidenziare lo sviluppo progressivo di questa idea, a partire dal “prequel” L’Italia s’è rotta di Bassetti. Un approccio, per così dire, più da “cronista” che da saggista puro, capace di calare ancor più il volume nell’attualità.
Perché questo libro, in ultima istanza, è un contributo prezioso per rispondere a diverse domande che animano il dibattito politico e culturale nel nostro Paese. Che, ancora, oggi, ha un problema irrisolto di identità nazionale – un problema che affonda le sue radici già all’epoca di Dante, a quella di Manzoni, a quella di Mazzini e dei più grandi e influenti pensatori del Belpaese –, complicato ulteriormente da quella dicotomia “globalizzazione-sovranismo” a cui abbiamo già accennato. Una dicotomia che fa pensare che, oggi, l’unica strada per difendere quell’identità nazionale sia, appunto, quella di “chiudere” e non di “aprire”. Anche a questa questione, nel libro curato da D’Aquino si troveranno opportuni spunti di riflessione. Lo stesso Bassetti, ad esempio, ha parlato di “populismo tribali”, ma anche Giampiero Bordino ha contribuito, nel suo saggio, al dibattito, rispondendosi peraltro che sì, gli italiani/italici “sono attrezzati per l’identità plurale e l’ibridazione”. “Credo”, scrive, “che in quanto italiani abbiamo abbastanza risorse per affrontare questa sfida”. Risorse di cui forse non siamo ancora consapevoli, ed è qui che sta l’utilità di questo libro. Libro che l’autore, ha confessato lui stesso, era tentato di intitolare “Lo spezzatino del Caimano”. Ma su questo non anticipiamo nulla, e lasciamo ai lettori il piacere di scoprire il perché.