È nella messa a confronto fra l’opera di Carlo Collodi, il sostrato di interpretazioni messe a punto da studiosi quali Giorgio Manganelli, Elémire Zolla e Massimo Riva e l’opera pittorica di Ezio Gribaudo, che si sostanzia l’acuto ed eclettico saggio scritto dalla studiosa e critica letteraria Victoria Surliuga, posto in apertura al denso volume “Ezio Gribaudo, Il mio Pinocchio” che la casa editrice Gli Ori ha pubblicato per trarre le fila su una delle tematiche che attraversano cronologicamente il percorso pittorico dell’artista torinese. Un saggio, quello di Surliuga, di sorprendente originalità: chi si accosti per la prima volta all’opera dell’artista torinese, conosciuto e riconosciuto a livello internazionale, specialmente a Parigi e negli Stati Uniti, scoprirà un mondo non solo di intensa vivacità cromatica – che si contrappone ad un altro filone che attraversa l’opera di Gribaudo, e che aveva colto anche Giorgio de Chirico, il bianco – ma anche la capacità, per quanto riguarda la serie su Pinocchio, che attraversa tutta la sua produzione artistica come un’ossessione mai risolta, di raccontare i deliri narcisistici e post o pre-identitari dell’essere umano contemporaneo per il tramite di un’interpretazione nuova e squisitamente personale del burattino collodiano.

Il Pinocchio di Gribaudo – e lo fa notare bene la studiosa – non evolve, non cresce, non percorre un iter formativo che alla fine lo faccia diventare persona, ma rimane fissato come in croce in un’eterna, machiavellica e mai risolta riproposizione della sua parte mancante, robotica, eterodiretta: quello che l’artista torinese dipinge è “una forma geometrica e meccanica” – son parole di Surliuga – che si accumula, come generantesi da una matrice che può essere riprodotta ad libitum e senza confini temporali. Non si approda da nessuna parte, non c’è nessuna storia nel Pinocchio di Gribaudo: o meglio, nell’opera pittorica dell’artista torinese, l’aspetto di automa seriale del burattino “lo colloca sempre all’interno del post-umano, come robot dalle possibilità che non rientrano nella capacità degli esseri umani” e la sua esperienza “descrive un ipertesto, ovvero un punto di partenza che ingloba e crea rimandi continui a situazioni esterne, testi e riferimenti culturali”.
Una figura, quella di Pinocchio, di stretta attualità, se è vero, come sostiene Massimo Riva, che “nell’era digitale i rapporti tra meccanicismo ed organismo non solo si confondono sempre di più ma vanno progressivamente invertendosi”. Un automa che ci ricorda quanto ci stiamo allontanando (in modo reversibile?) rispetto all’umanesimo, che nasce in epoca classica e si rigenera durante il Rinascimento. Questa la forza del – lo sottolineo di nuovo – Pinocchio di Gribaudo, che si ispira certamente a quello di Collodi ma che prende una sua strada, fissata in un presente, scevra della teleologia che permea invece il romanzo di formazione dell’autore toscano.

Surliuga segue il lavoro di Gribaudo da anni: prova ne sono il suo volume “Ezio Gribaudo, The Man in the Middle of Modernism” (pubblicato nel 2016) nonché la mostra da lei curata a Lubbock, presso il Louise Hopkins Underwood Center for the Arts (LHUCA); nell’introduzione a questo nuovo (e bellissimo!) libro coglie aspetti interessanti che possono illuminare anche altre zone del percorso dell’artista. Nel Pinocchio di Gribaudo, come fa notare bene la studiosa, non si forma nulla, al massimo si riproduce all’infinito, senza approdare in nessun luogo. Qui la gioia vivace dei colori, dei cerchi e delle biciclette è pura illusione; l’aspetto giocoso, pur presente, è pura facciata. Tutto si moltiplica e sgretola al tempo stesso. Per paura di incarnarsi, di radicarsi, si rifiuta la vita, ci si riduce ad una marionetta che non sa far altro che riproporre all’infinito se stessa. Per paura della morte, la si anticipa.