Giorgio Caproni, questo sconosciuto. La polemica classicamente “italiota” scoppiata in occasione della prima prova di questa maturità potrebbe considerarsi, per così dire, provvidenziale. Provvidenziale in quanto occasione di riflettere – magari, per una volta, mettendo da parte la polemicuccia sterile tanto tipica di questo Belpaese – sul senso della poesia e sul senso della scuola. Una scuola che ancora oggi, nel 2017, presume di insegnare la letteratura a generazioni native digitali, in un mondo sempre più tecnico e dominato dall’unico verbo del marketing. Questa contraddizione è emersa prepotentemente proprio sui social network, dove orde di maturandi ed ex maturandi hanno riversato il proprio sdegno a colpi di hashtag: «Ti fanno studiare 5847 autori. Esce un tizio qualsiasi che ha scritto un libro. A sto punto tra qualche anno aspettiamoci Fabio Volo #Caproni», scrive un utente. «Comunque il top è stato il Presidente che ci chiede se sappiamo chi è #Caproni e due commissarie che vanno a cercarlo su Internet», cinguetta un altro.
E no, non ricorrerò alla classica argomentazione del pedante che s’indigna dell’ignoranza altrui. Giorgio Caproni è davvero un semi-sconosciuto al grande pubblico e a chi popola – da un lato all’altro della cattedra – le aule liceali: è già tanto se quei temerari che ancora oggi si incaponiscono a scegliere Lettere all’Università abbiano incontrato di sfuggita qualche suo verso in un esame di Letteratura contemporanea. E no, il punto non è che un poeta come Caproni meriterebbe ben più di una menzione nei percorsi scolastici, o che l’istruzione non è più quella di una volta, che la poesia è morta, che non c’è più religione e nemmeno le mezze stagioni. Il punto è un altro: che la polemica di questi giorni non è soltanto sterile, ma nasce da quello che potrebbe definirsi un grosso equivoco. Un equivoco – che il dicastero della Pubblica Istruzione ha creato e cristallizzato nel tempo – nel nostro modo di intendere, e di “fare” la scuola.
Parto subito con il dire che la scelta di inserire Giorgio Caproni nella prima prova della maturità mi pare un insperato colpo di genio da parte di un Ministero che, giorno dopo giorno, ha smarrito la propria credibilità a colpi di riforme inguardabili, tunnel di neutrini e “traccie” con la “i”. Un barlume di lucidità in un’epoca in cui l’istruzione è tragicamente fuori forma e fuori tempo. Sì: perché in fondo non serve sapere vita, morte e miracoli di un autore, per leggere, capire e “sentire” la sua poesia. Non sarebbe poesia, altrimenti.
La poesia è tale perché è un linguaggio umano, universale e sempre vivo. Occorre davvero, per leggere dei versi, conoscere la data di nascita di un poeta, ripetere a memoria i titoli delle sue raccolte, assorbire mnemonicamente le parole chiave della sua poetica come gli ingredienti per cucinare un bel budino? Non si rischia, in questo modo, di uccidere la poesia? Il punto è proprio qui, davanti a noi: questo è l’approccio che oggi utilizza la scuola verso i suoi studenti. Rigidi programmi ministeriali vecchi di decenni; nozioni su nozioni, da saper riprodurre come un “Padre Nostro”; date e tecnicismi con cui imboccarli, con il solo risultato (quasi assicurato) di far perdere loro il senso e il valore dello studio, e di quell’immensa cultura che ci circonda. Così, oggi, studiamo la letteratura, la filosofia, la storia, la poesia. Arti un tempo altissime, e ora regni del nozionismo e – paradossalmente – della noia. La Divina Commedia, I Promessi Sposi non sono capolavori da far rivivere attraverso gli occhi vergini e pieni di stupore dei giovani d’oggi: diventano torture su cui passare ore e ore in vista di un’interrogazione. Trascorsa la quale, naturalmente, fare tabula rasa per lasciare il posto ad altre nozioni. Non penso che questa – il diventare una condanna per milioni di giovani – sia la gloria postuma che Dante, Manzoni o lo stesso Caproni (che fu anche uomo di scuola oltre che poeta) si aspettavano di ricevere.
Serve sapere chi è Caproni per “sentire” Caproni? In una scuola che sia scuola, a parer mio, no. Non in una scuola che sia in grado non tanto di insegnare a riprodurre, ma che sia capace di incoraggiare a leggere (non si legge più: è questa la prima grande emergenza a cui la scuola dovrebbe rispondere), a capire, a creare, anche a sbagliare, se necessario. Una scuola che sia creativa, ascoltatrice dei talenti degli studenti, valorizzatrice delle loro inclinazioni. Una scuola che insegni a ragionare. Anche di fronte a un testo poetico di un autore semi-sconosciuto, che qualcuno ha avuto l’ardire di accostare a Fabio Volo.
Un autore che, anche leggendolo oggi, senza conoscerne vita, morte o miracoli, non può che parlarci direttamente, con potenza, risvegliando in noi quel sentimento poetico universale che pensavamo di aver perso. «Enea che in spalla / un passato che crolla tenta invano / di porre in salvo, e al rullo di un tamburo / ch’è uno schianto di mura, / per la mano ha ancora così gracile un futuro / da non reggersi ritto»: non vi dicono nulla questi versi? Enea, leggendario eroe e mitico antenato della nostra civiltà, che fugge da Troia in fiamme, con in spalla il vecchio padre Anchise e per mano il piccolo figlio Ascanio, la sua città per sempre dietro di sé, davanti un mare tempestoso da attraversare: non vi ricordano le tante scene viste in televisione, quei barconi pieni di disperati, quello strazio di esuli che solca il Mediterraneo, in fuga dal dolore, dalla
morte, dalla fame? Nulla che Caproni, quando scrisse Il passaggio di Enea, potesse neppure immaginarsi: semmai, l’autore pensava alla guerra vissuta, non certo alla crisi migratoria che, decenni più tardi, avrebbe sconvolto l’Europa e risvegliato sentimenti pericolosamente nazionalisti e populisti che si pensava sepolti. Eppure, oggi quella poesia è anche questo. Non è solo il passato, è anche il presente, il presente di ciascuno di noi. La poesia è per sempre ed è viva, ed è sempre nuova. Ed Enea, come ebbe a dire lo stesso poeta, è «simbolo unico di tutta l’umanità moderna». L’umanità tutta, di ogni tempo e di ogni luogo. Che risuona in ogni verso, indipendentemente da chi, quando e perché l’ha scritto. Non è questo che dovrebbe insegnare la scuola?