Muoiono i poeti
ma non muore la poesia
perché la poesia
è infinita
come la vita
Una «grandezza (chiara e polposa)», che «piglia tutti i piccioni con una fava»: questa, secondo Vittorini, la natura di Aldo Palazzeschi, poeta-clown provocatorio ed eslege, sempre in precario equilibrio tra elegia e ironia. Per quanto possa sembrare paradossale, sono proprio quell’estrosità e quella prorompente esuberanza trasudate dai suoi versi a costituire il sintomo più tangibile del mal di poesia di cui, come tanti colleghi novecenteschi, egli soffrì. A fronte della convinzione che, in quel periodo, «la parola fosse prigioniera di una formula dalla quale bisognava liberarla», Palazzeschi s’impegnò a rincorrere «una verginità di poeta», senza mai – in apparenza – prendersi troppo sul serio. In questo senso, a nessun altro come a lui potrebbero attagliarsi le parole della Gaia scienza nietzschiana, secondo cui «proprio perché in ultima istanza siamo gravi e seri e piuttosto dei pesi che degli uomini, non c’è nulla che ci faccia tanto bene quanto il berretto a sonagli». Ecco, dunque, l’unico copricapo di cui il poeta può ancora incoronarsi, dopo la “perdita dell’aureola” denunciata in primis e oltralpe da Baudelaire: un bizzarro berretto a sonagli, con cui l’antico mangiator d’ambrosia finisce per imbellettarsi da fantasioso saltimbanco. Ricordate quei versi un po’ inflazionati, con cui si riassume, forse troppo alla buona, l’intera produzione palazzeschiana? Rifiutata con decisione la qualifica di “poeta”, alla fatidica domanda: «Chi sono?», la risposta è perentoria: «Il saltimbanco dell’anima mia». Così, quell’ironia che, in alcuni casi, diviene addirittura riso sguaiato è, in realtà, la faccia (mascherata) di una medaglia decisamente più grave e seriosa: Papini parlò di «quello stato dello spirito cui si arriva quando, dopo aver meditato e studiato, cercato e vissuto, si viene a scoprire che la formula capitale della nostra metafisica, […] il Senso dei Sensi, non era altro che un non-senso».
La totale insensatezza della vita da un lato e la drammatica emarginazione della poesia e del suo cantore dall’altro causano dunque, nell’opera di Palazzeschi, una reazione sempre più provocatoria e carnevalesca; non solo: di verso in verso, il poeta verifica la propria inettitudine di fronte alla vita vera, ora rappresentandosi come l’immobile “principe bianco” delle prime prove poetiche, ora caricando il trucco sul suo volto proteiforme e clownesco. Così, nella prima raccolta – i Cavalli bianchi –, prevalgono atmosfere surreali e incomprensibili, buio, stasi e parate in bianco e nero di personaggi immersi nel silenzio: a dominare, in quelle pagine, è la «rinuncia ai colori delle passioni per i recinti sacri dell’arte», chiaro sintomo dell’«incapacità ontologica dell’artista di conciliare vita e arte». Torniamo, insomma, al solito punto: se nasci poeta, scordati pure di poter vivere di vita, di avere un’esistenza conciliata, di essere banalmente e semplicemente uomo. Se nasci poeta, confermava Palazzeschi, non potrai sfuggire alla più crudele delle sorti; e lui li conosceva bene quei disgraziati amici delle Muse, «Gobbi di dentro, gobbi di fuori, pazzi, paranoici, ossessionati di grandezza o di miseria, epilettici, tubercolotici, invertiti alcolizzati, timidi, collerici, vendicativi»: tra quel maneggio, infatti, dichiarava di viverci da sempre; «in quel marmo, e più di questa vita, quella assaporo, sopra il bel piedistallo», confessava, definendosi, addirittura, un «inamovibile minchione»! E se anche, di raccolta in raccolta, quel bianco all’inizio dominante comincia a tingersi di rosso, fino al punto di dar luogo alle fiamme purpuree dell’Incendiario, non per questo arte e vita paiono rappacificarsi. Sarà pure il colore della passione, e dunque della vita; eppure, lo scarlatto dell’Incendiario non è sintomo della riconciliazione dell’artista con la propria esistenza. Nella poesia eponima alla raccolta, infatti, il poeta è accostato ad un Eroe in gabbia: l’Incendiario. Quest’ultimo è imprigionato perché la «marmaglia» teme le sue fiamme – insieme a tutto quello che eccede dalla norma e dai canoni legittimati dai benpensanti –; per questo, il poeta se ne proclama orgogliosamente il «sacerdote». Eppure, tutt’altro che eroico appare quest’ultimo, che, a differenza dell’Incendiario, non sa maneggiare la fiamma, né può «[…] cogli occhi / bruciare tutto il mondo!». Proprio colui che, in altre carte, si era dato del «minchione», insomma, si definisce ora «un povero incendiario che non può bruciare», un «povero incendiario mancato, / incendiario da poesia». Incapace di appiccare un fuoco vero, al poeta non rimane che difendere con misere parole l’Eroe in gabbia, consapevole che, dichiara, «Incendio non vero / è quello che scrivo». Quello che parrebbe, di primo acchito, un manifesto celebratore della potenza rivoluzionaria della poesia diviene, dunque, una drammatica ammissione di impotenza da parte del poeta, che non manca di confessare la propria inettitudine di fronte all’Incendiario: «Come mi sento vile innanzi a te!». Chi, d’altronde, preferirebbe la capacità di suscitare fiamme virtuali, di carta, a quella di appiccare un vero, distruttivo incendio? Di qui, il riso sguaiato di E lasciatemi divertire: chiuso nella sua prigione di sillabe e di rime, in un mondo che ha smarrito ogni rispetto per l’inutilissima opera di tutti i «minchioni» come lui, al poeta non resta che giocare con le più insensate «corbellerie»: «Tri tri tri, / fru fru fru, / ihu ihu ihu, / uhi uhi uhi! / Il poeta si diverte, / pazzamente, / smisuratamente!». Dimenticatevi per sempre, insomma, gli armoniosi versi in stile Tanto-gentile-e-tanto-onesta-pare: dantesca memoria di un’aureola sepolta nel fango. Ora, la poesia potrà ospitare solo «indecenze», «strofe bisbetiche»: «robe avanzate», «spazzatura / delle altre poesie». Ben modesta rivoluzione, oltretutto, considerando che, a differenza dell’Incendiario, le fiamme del dissenso suscitate dal poeta rimangono confinate tra gli angoli di innocue pagine: le uniche «licenze» di cui egli, l’Inetto per eccellenza, è capace, rimangono insomma miseramente «poetiche». Così, non più «castelli rovinati, / decrepite ville abbandonate» popolano i sogni del saltimbanco: quasi profetico dei futuri e triviali reality show che avrebbero popolato gli schermi televisivi, egli auspica di chiudersi in una «casina di cristallo», dove «L’antico solitario nascosto / non nasconderà più niente / alla gente». Dismessa per sempre l’aura di aristocraticità che anticamente lo caratterizzava, il poeta metterà in mostra tutto di sé, dai propri riposini – perché, si sa, «Pigrizia e poesia vanno a braccetto» –, ai momenti della giornata meno poetici in assoluto: addirittura, afferma, «mi vedrete quando sono a fare i miei bisogni». Ecco, le nuove frontiere dell’arte della modernità: a detta della folla, scandalizzata e incuriosita insieme, «una gran puttanata!».
Eppure, sotto quel riso sguaiato, a nascondersi rimane una consapevole malinconia e un indefesso amore per la Poesia con la P maiuscola, che, nella modernità, può sopravvivere soltanto nella forma di una riflessione sul suo destino a partire da basi critiche avvertite. Consapevole però che «Schivare il dolore, fermarsi inorriditi alle sue soglie, è da vili», il poeta decide di «Entrarci e risolutamente andare», in quel dolore, «flagellando la propria anima senza pietà»: unico appiglio a cui aggrapparsi, quella maschera da saltimbanco… Ecco perché, quando il Signore, apparso, in una lirica, al poeta in sogno, con «voce di rimprovero / e la faccia severa» gli intima: «“Ehi! giovanotto, / è ora di finirla” / […] / “basta con gli scherzi / hai scherzato abbastanza”», egli, tra sé e sé, risponde: «E io non ho scherzato mai / pur dicendo di scherzare: anche il Signore sbaglia».