dire co’l poderoso canto umano
la vanità de l’essere infinita.
Avete mai immaginato di rivolgere la domanda che ci stiamo ponendo da un po’ – se ci sia spazio per la poesia nella modernità – a Luigi Pirandello? Probabilmente no. E non solo perché il grande scrittore è morto da quasi ottant’anni, o perché, più banalmente, preferite dedicarvi a viaggi mentali di tutt’altro genere; forse anche perché, direte voi, l’autore del Fu Mattia Pascal è stato tutto – romanziere, novelliere, drammaturgo – fuorché poeta. Posizione, quest’ultima, indiscutibilmente errata, ma giustificabile, visto lo scarsissimo riguardo che il senso comune e l’istruzione scolastica ha riservato alle cinque più importanti raccolte poetiche del poliedrico autore. Quello che Pascoli, ferito per la sferzante critica ricevuta alle sue Myricae, ribattezzò “Pimpirandello” avrebbe dunque tutti i titoli per poterci fornire un autorevole punto di vista sulla questione; e già lo fece attraverso molte delle sue liriche, dalle quali lasciò trapelare, con l’umorismo di cui fu indiscusso maestro, tutto il disagio che lo accompagnò negli anni dedicati a mettere a frutto l’ingrata vocazione per la poesia.
«Fino a tutto il 1892 non mi pareva possibile che io potessi scrivere diversamente, che in versi», appuntava Pirandello in alcune note autobiografiche, a riprova di come, per lui, la poesia non fosse stata una tentazione passeggera; tutt’altro: essa fu una passione vissuta dannatamente e fino in fondo, al punto che quel trentesimo anno di età prefissato come termine ultimo per giudicare i risultati raggiunti e, eventualmente, cambiare rotta fu in realtà sorpassato di una decade. Non solo: a detta del figlio Stefano, Pirandello si accanì, almeno fino al 1933-34, sullo strumento poetico, rivedendo, correggendo e pubblicando liriche fino a quella data, e con l’intenzione, alla fine della sua carriera, di «ritornare là donde era partito giovinetto e concludere come aveva cominciato: da poeta». Eppure, come avvenne per Baudelaire, anche Pirandello finì per abbandonare il verso, di cui percepì, forse, tutta l’inadeguatezza a rappresentare la grande “pupazzata” dell’esistenza. D’altronde, come si poteva pretendere che il flusso continuo e proteiforme della vita, popolato di maschere e apparenze illusorie, potesse essere fissato in poesia, l’arte per eccellenza che, «com’era insegnata dalla scuola, dalla retorica, era soprattutto composizione esteriore, accordo logicamente ordinato»? Ci si sta chiedendo, dunque, se quel cosmo ormai privo di centro e di certezze entro cui l’uomo novecentesco era condannato a vivere potesse essere degnamenteritratto in poesia, dal momento che «la vita nuda, la natura senz’ordine almeno apparente, irta di contradizioni, pare all’umorista lontanissima dal congegno ideale delle comuni concezioni artistiche». Non a caso, Bachtin teorizzò la necessità che «il mondo della poesia, qualunque siano le contraddizioni e i conflitti insolubili che vi scopre il poeta» rimanesse comunque «illuminato da una parola unitaria e indiscutibile»: e il risultato pareva essere tutt’altro che garantito. La posta in gioco, poi, era altissima, e Pirandello ne fu sempre consapevole, se è vero che, come scrisse in uno dei suoi saggi, «nessuna conoscenza, nessuna nozione precisa possiamo avere noi della vita; ma un sentimento soltanto e quindi mutabile e vario. Ma che sentimento! Nella poesia, il sentimento – non nella scienza». Eppure, proprio quell’inarrestabile progresso scientifico – che instillò nell’uomo la consapevolezza della propria marginalità nell’universo al punto da ispirare, a Mattia Pascal, la famosa imprecazione «Maledetto fu Copernico!» – pare uno dei massimi responsabili dell’impraticabilità della poesia nella modernità: la Musa, antica «vergin greca» ormai muta, è ora scalzata da una «novissima / iddia da gli occhi di falco / scrutatrice ostinata del vero», che, alle vecchie favole poetiche, pare lasciar ben poco spazio. In un mondo dominato dalla vertiginosa consapevolezza del limite di cui la scienza si è fatta portatrice, i pensieri del poeta non sono altro che “nuvole”, strambamente rassomiglianti a «vacche / sparse pe i campi liberi de l’aria». Ben lungi dal poter rivendicare un qualsiasi tipo di utilità, dal momento che «le poppe / di quelle vacche non dàn latte», al poeta non rimane che tentare di vendere quell’«aerea merce», consigliandone l’acquisto «ai filosofi» e, nell’esercito dei «mille illusi», specialmente ai poeti: «Potranno su le nuvole vivere gli uni onestamente, e gli altri di poesia». L’aureola baudelairiana, ormai, è letteralmente imbrattata di fango: troppo vacua e inconsistente per poter, dalle nuvole, essere riammessa sulla terra, e insieme spregiata e svalutata al punto da diventare merce, seppur “aerea”, di cui liberarsi a basso prezzo. D’altronde, la «condizion non lieta» della poesia nel presente è ben desumibile, considerando che, in un’altra lirica, il poeta ventitreenne diviene l’oggetto delle mire di una vecchia zia «tre o quattro volte pazza», e di una quarantenne «rimprosciuttita» e affetta da «furor di matrimonio»: solo per un simile target, un poeta potrebbe rappresentare ancora un buon partito! Di fronte a un mondo che disprezza la poesia, un mondo che, a sua volta, non è altro che una «trottolina» dispersa nel cosmo, l’ultimo voto del poeta è quello di comporre un canto «Eterno immenso e vario», tanto «poderoso» da poter racchiudere la «vanità de l’essere infinita». Un canto del genere, però, non potrebbe che risultare stonato e “fuori di chiave”, come recita il titolo dell’ultima raccolta pirandelliana; sarebbe, in ultima analisi, una voce scomoda e demistificatrice, perennemente torta dal sorriso amaro dell’umorista: uomo, tra tutti, consapevole di non esser più «microcosmo e re della natura», ma grottesco burattino sorpreso dall’improvviso strappo nel cielo di carta che sovrastava il suo misero palcoscenico. Da qui, un «non chiederci la parola» ante litteram: «Io che mi sono senza cuor ridotto, / d’ora innanzi, ti giuro, starò muto; / questo, ti giuro, è l’ultimo saluto».
«Scrivo dei versi, ahimè! senza pensare che tempo e uomini non ne vogliono più», confessava Pirandello nel 1890 in una delle tante lettere cui affidava lo scoramento derivante dalla sua contrastata vocazione. Vocazione di cui, in fin dei conti, la sua conversione alla prosa – strumento più propenso a rappresentare la coscienza “fuori di chiave” dell’uomo moderno – fu non negazione, ma coronamento: come se l’autore intendesse affidare ad altre, più adatte, carte, il voto espresso un tempo in versi. Non è un caso, forse, che uno degli ultimi drammi pirandelliani, I giganti della montagna, metteva in scena proprio il mito della poesia: un mito drammatico, ma irrinunciabile, se è vero che Pirandello rimase intrinsecamente poeta in alcuni, indimenticabili, passi delle sue prose. Così, quando in una sua lirica rappresentava il grottesco e umoristico scompiglio suscitato da un innocuo grillo tra gli abitanti di una casa, egli, forse, intendeva evocare la condizione del poeta stesso: condannato a suscitare eguale scompiglio, pur di rimanere fedele a se stesso. Allo stesso modo, per quanto destino difficile e ingrato, «Nascere grilli è pure qualche cosa…».