Chi sono? Non chiederlo. Io piango,
ma di notte, perch’ho vergogna.
O alato, io qui vivo nel fango.
Sono un gramo rospo che sogna».
Giovanni Pascoli: antonomasia della nostra tradizione poetica e ragguardevole nome noto un po’ a tutti; tristemente familiare, soprattutto, ai tanti studenti ogni giorno costretti a sorbirsi gli ormai triti fru-fru-tra-le-fratte e tutto il restante esercito di onomatopee, fonosimbolismi, rassegne zoologiche e gelsomini notturni che la didattica ministeriale di lui tramanda. Con l’eco degli zoccoli della cavallina storna nelle orecchie e della lode all’ufficio di poeta affidata alle carte del Fanciullino, difficilmente si potrebbe supporre che proprio Pascoli, cantore tanto “istituzionale”, fu, per l’epoca, un rivoluzionario; rivoluzionario a dir poco: non si parla soltanto di innovazioni linguistiche e metriche, ma di un poeta che, sulle soglie del nuovo secolo, costantemente percepì traballare l’aureola sul proprio capo. Giustamente un altro grande del nostro Novecento, Pirandello, parlò a questo proposito di una poesia che, lungi dall’essere una «vena d’acqua limpida», assomigliava più a un «rivolo tortuoso, gemente»; e poco importa se la critica da lui firmata alla terza edizione delle Myricae gli guadagnò, da parte del permaloso cantore di San Mauro, lo sprezzante epiteto di «Pimpirandello»: quelle osservazioni mettevano a fuoco, di fatto, tutta la modernità di un poeta che, nella natura che cantava, intravvedeva sempre il dramma esistenziale e artistico del proprio tempo. Certo, le liriche di Pascoli rimangono ben lontane dal livore satanico di certi versi baudelairiani, tanto che un critico lo definì ancora troppo sano per la sofferenza invelenita dei moderni; eppure, il costante riferimento alla morte che sostanzia quei versi è già traccia di un’inquietudine tutta novecentesca. Non a caso, Contini puntualizzò come Pascoli fosse ossessionato tanto dal «problema della morte delle parole» – «la lingua dei poeti è sempre una lingua morta», ebbe a scrivere – quanto da quello «della morte delle creature». Del resto, in quei versi la classica concezione della poesia come capace di vincere la morte va progressivamente scomparendo: per Pascoli, l’epica missione del poeta consisteva, piuttosto, nel perpetrare «la lugubre ma benefica scoperta» della mortalità dell’uomo sancita dalla scienza. Ciò che rimaneva da fare al poeta moderno, dunque, non era di sconfiggere, coi propri versi, la morte, ma di farla accettare, nella consapevolezza che la poesia non avrebbe più potuto ergersi a quel “monumento più perenne del bronzo” celebrato, numerosi secoli prima, dal poeta latino Orazio.
È però nei Poemi Conviviali, opera ingiustamente poco nota e studiata, che tale sensibilità novecentesca raggiunge il proprio apice. Paradossale attribuire un’acmé di modernità al libro “più antico” del poeta, se non altro per tematiche: i poemi, infatti, consistono in riletture di motivi, situazioni e personaggi della classicità, ma il filtro della visione offerta non potrebbe essere più attuale. Così, gli stessi versi che, di primo acchito, parrebbero esaltare la poesia e il suo potere eternatore finiscono invece per stendervi un’ombra di ambiguità e dubbio, destinata ad allargarsi drammaticamente. Si prenda, ad esempio, il canto di Saffo in Solon: «E il poeta fin che non muoia l’inno, vive, immortale, / poi che l’inno […] / è la nostra forza e beltà, la vita, l’anima, tutto!». Quale lode più sublime potrebbe innalzare, al canto, la poetessa di Eresso? Eppure, leggendo più in profondità tali versi, ci si accorge che questi sono ben lungi dal sancire l’eterna persistenza del canto e del poeta: l’immortalità di quest’ultimo, infatti, è paradossalmente vincolata al tempo in cui la poesia durerà; quando questa morirà (e morirà), anche il poeta sarà destinato a scomparire. Il tragico destino del poeta è magistralmente allegorizzato in un altro poemetto, intitolato Il cieco di Chio ed ispirato alla mitologica figura di Omero. Lì, il vecchio aedo ricorda l’origine della propria ispirazione poetica come frutto di un doloroso compromesso: intento a gareggiare in canto con lo zampillio di una fonte – agone giudicato blasfemo dalle divinità –, egli viene accecato dal riflesso del sole sull’aurea cetra. È dunque la stessa cetra, strumento di canto per elezione, a chiudergli per sempre gli occhi: da essa gli è giunto il bene più grande e il male peggiore, e la perdita della vista lo renderà per sempre un esule senza più commercio con la pratica del mondo. Ecco la natura del poeta: un uomo-più che uomo che, per acquisire familiarità con l’«ombra lunga, immensa» delle cose a cui la poesia dà voce, è costretto a rinunciare alla visione consueta e mondana. Vita e poesia, allora, parrebbero valori irrimediabilmente concorrenziali: impossibile, sembrerebbe, essere uomo tranquillo e poeta insieme, poiché, come affermato nel Fanciullino, «l’arte del poeta è sempre una rinunzia». Il colmo dell’ambiguità è però raggiunto nell’Ultimo viaggio, poemetto che narra il ritorno di Ulisse sui luoghi odissiaci da lui toccati nel suo nostos verso Itaca. In quel nuovo ritorno, l’eroe sarà costretto a constatare che le proprie avventure eternate in poesia non sono altro che vacui sogni: Circe non c’è più; l’aedo Femio è ormai morto, e Polifemo non è certo un gigante da un occhio solo, ma un vulcano; quelle stesse Sirene che un tempo gli promisero di rivelargli la verità attraverso il canto non sono che aridi e aguzzi scogli, contro cui la nave dell’eroe si infrangerà definitivamente.
«Il mio sogno non era altro che sogno; e vento e fumo», ammetterà tragicamente Odisseo; e lo stesso, su queste basi, potrà concludere il poeta, di fronte all’evidenza che i propri versi, per i quali aveva accettato un destino di esilio dalla luce del mondo, non soltanto non sono in grado di vincere la morte, ma sono in ultima istanza vuoti sogni, «infinita ombra del vero». Non solo cantore di una poesia del nido, popolata da vivide impressioni naturalistiche, dunque; Pascoli è stato anche uno dei primi poeti a varcare la soglia del nostro Novecento avvertendo il dirompente e drammatico silenzio delle Sirene. Un silenzio davanti al quale il poeta non ha voluto del tutto arrendersi, ma ha dovuto riconoscere al proprio canto un nuovo, più incerto statuto, e a se stesso la natura, contrastata, tragica e ossimorica, di «gramo rospo che sogna».