Sono appena rientrata da una serie di conferenze in Olanda, all’Aja, alla Università di Groningen e poi a Milano a parlare della figura di Rosa Genoni e del suo ruolo come anticipatrice del discorso del made in Italy o della moda italiana, quando questi erano solo un sogno di pochi, oltre che del suo impegno per il pacifismo e femminismo internazionale.
Vorrei ricordare che Genoni è sta la co-fondatrice della WILPF (Women’s International League for Peace and Freedom) in Italia. Un'organizzazione che fu uno dei risultati più tangibili del convegno internazionale delle donne tenuto all’Aja nella primavera del 1915 contro la Grande Guerra. Quello che sottendeva il suo impegno e la sua passione intellettuale era la ricerca della libertà, il potersi esprimere e diventare soggetto (soprattutto delle donne), la non violenza e la convinzione che la moda e il vestire siano parte dell’educazione e comportamento non solo degli individui ma anche della collettività e di communities più grandi, come quelle delle nazioni. Sono temi, questi, di grande attualità anche per nuove generazioni immerse nei mondi digitali e nella blogosfera.
Mi ha fatto piacere constatare come queste idee non siano confinate a un case study italiano come Rosa Genoni ma hanno più ampio respiro e investono altre comunità, altre culture e altri studiosi come gli storici che stanno cominciando a considerare la moda come qualcosa che possa rivelare delle verità nascoste e dei gesti importanti di una data epoca, oppure aiutare a cogliere le pieghe non immediatamente visibili dell’identità, il processo della sua narrazione.
Poi nelle mie escursioni editoriali, ho trovato un libro di Marco Bettiol, uscito nel febbraio del 2015. Il titolo del libro è Raccontare il made in Italy. Un nuovo legame tra cultura e manifattura (Marsilio Fondazione Nord Est: 2015). Mi ha particolarmente interessato sia per l’ argomento, essendo questo uno dei miei campi di ricerca, sia perché sarà un ottimo riferimento di lettura per i miei studenti al Queens College che seguiranno un corso sul made in Italy e sulla sua cultura e storia. Un tema questo che, a mio parere, andrebbe introdotto nei programmi di Italian Studies qui da noi, negli Stati Uniti. Sarebbe un modo per porre delle domande sulla storia culturale italiana e interrogarsi su come questa si rapporta alla sua produzione di eccellenza nel campo del design, del cibo, della moda e del tessile. Come queste culture entrano in rapporto non solo con la letteratura, le arti visive ma anche con la cultura popolare e dei nuovi media. Questo sguardo multidisciplinare e multisensoriale ci consente di approfondire lo studio delle esperienze di eccellenza del made in Italy di oggi.
Ho trovato il saggio di Bettiol molto ben fatto e con una struttura che aiuta alla comprensione di questo fenomeno complesso. Infatti il libro si organizza in quattro parti principali: la prima si intitola Perché il made in Italy è interessante, poi si passa alla Manifattura culturale e alla sessione su Internet e il nuovo racconto del made in Italy concludendo con Le regole della comunicazione. Quello che colpisce in questo saggio è proprio l’ enfasi sul racconto e la ricchezza analitica del percorso espositivo. Quando si pensa al racconto e alle strutture narratologiche si pensa naturalmente alla letteratura o alle discipline umanistiche. Quindi ben vengano studi come quelli di Bettiol che riescono a trovare un linguaggio comune, in grado di collegare vari discorsi culturali con lo story telling del marketing che oggi deve farsi più sofisticato per avere una presa su un consumatore il cui identikit è completamente cambiato.
Bettiol individua dei nodi centrali per far sì che il prodotto italiano – che sia questo dell’industria della moda o altro – e le sue caratteristiche peculiari siano efficacemente comunicati insieme alla sua storia: un asset importante per il prodotto italiano, il collegamento alla sua storia culturale e alle sue innovazioni tecnologiche. Infatti la rivoluzione digitale ha portato un cambiamento radicale non solo delle sue forme di comunicazione ma anche dei suoi contenuti. Bisogna dunque curare diversamente sia la forma che il contenuto della maniera in cui si presenta e racconta un prodotto. Ma direi che questo discorso non vale solo per un prodotto di design ma anche per ogni progetto comunicativo che riguarda la scrittura. Infatti la rivoluzione digitale non ha veramente intaccato, come temono molti, le pratiche dello scrivere e del leggere. Anzi, diciamo che le ha moltiplicate mentre allo stesso tempo ne ha ridefinito e continua a ridefinirne le forme, il suo stile e come e quando associare le immagini alle parole e far sì che queste nuove configurazioni si aprano ad altri mondi o riescano a toccare i nostri mondi interiori. I consumatori sono diventati più esigenti, non vogliono solo comprare un determinato prodotto ma ne vogliono conoscere la storia e anche da dove viene, chi l’ ha fabbricato eccetera.
Vi è una qualità partecipativa e interattiva nelle piattaforme digitali. Se L’ Opera aperta di Umberto Eco o un romanzo come Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino avevano assegnato al lettore una forte funzione interattiva con il testo letterario, oggi questo concetto si materializza nel nostro rapporto quotidiano con l’Internet e il digitale. Un esempio molto bello e attinente di Marco Bettiol è quello di Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, uno dei manuali più conosciuti della cucina in Italia. L’ autore spiega che se nella prima edizione del testo le ricette erano 475, nella quattordicesima ristampa arrivano a 790. L’ ampliamento consistente del testo è determinato dal contributo degli stessi lettori che nel tempo sottopongono all’autore altre ricette che vengono aggiunte a quelle originali. Infatti, sottolinea Bettiol, il grande successo del libro è dovuto proprio al suo carattere narrativo, ogni ricetta è contestualizzata in una storia, che racconta la cultura identitaria delle persone e dei luoghi. Come giustamente afferma Bettiol, “Il manuale è il prodotto di una community che si è riconosciuta attorno a un’impresa comune: qualificare il quotidiano lavoro ai fornelli”.
Una bella lezione questa, che ci fa riflettere su come creativamente investire le nostre analisi critiche e linguistiche ma anche entrare dentro le pratiche del fare e del pensare contemporanei.