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August 23, 2014
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August 23, 2014
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“Welcome Home” Oriana: la prima America della Fallaci

Chiara TrebaiocchibyChiara Trebaiocchi
Time: 5 mins read

Amata e odiata, senza troppe misure o mezzi termini. In fondo anche Oriana era così, una donna e una giornalista unica, senza troppe misure o mezzi termini. Di certo è stata e rimane la Fallaci, la giornalista italiana più nota e apprezzata all’estero. Nel suo paese, anch’esso forse amato e odiato, la sua figura continua a essere oggetto di opposti giudizi, di quel sentimento contrastante che solo i grandi personaggi sanno suscitare. Oriana non si è limitata infatti a raccontare la Storia – quella delle grandi figure intervistate e toccate dalla sua penna appuntita, quella dei celebri, terribili conflitti in Vietnam e Medio Oriente o quella dei grandi eventi che hanno segnato il XX e il XXI secolo, dallo sbarco sulla Luna agli attentati dell’11 settembre. Oriana stessa è diventata parte di quella Storia che veniva a intrecciarsi tra le sue dita, nella sua prosa limpida e convulsa, potente ed eccessiva. L’uso traboccante della punteggiatura che avrebbe scatenato la penna rossa di ogni maestro era solo un risvolto stilistico di un animo acceso, incapace di qualsiasi controllo. Per i giornalisti puri i suoi libri erano “roba da scrittori”; per quest’ultimi i romanzi della “giornalista di Saigon” (così Oriana definisce il suo alter ego in Insciallah, la sua piccola Iliade frutto di più di dieci anni di lavoro) non si allontanavano molto dai diari di guerra o dai resoconti cronachistici.

Lontana dalle categorie e dalle costrizioni di genere la Fallaci ha venduto oltre venti milioni di copie divenendo una delle scrittrici italiane più tradotte di sempre. Passano gli anni infatti ma i suoi libri continuano a essere letti e discussi. Basti pensare che nel 2010 il gruppo editoriale RCS ha raccolto in nuova veste e con prefazioni d’autore tutti gli scritti della Fallaci con ottimo successo di vendite.

 copertina

Questa estate si torna ancor più indietro nel tempo, alla scoperta di quel paese divenuto per Oriana una seconda patria, una terra che da subito l’ha affascinata per le sue contraddizioni e il suo triste splendore. In Viaggio in America (Rizzoli, 2014, pp. 305, 19 euro) sono raccolti i reportage scritti per l’Europeo dal 1965, anno in cui – a distanza di appena un decennio dalla sua prima visita – Oriana si trasferisce a New York per descrivere da italiana la società e i costumi di quel mondo al di là dell’oceano. Che l’America fosse al centro dei suoi interessi era ben chiaro ai suoi lettori. La storia di Giò, protagonista del primo romanzo della Fallaci, Penelope alla guerra (1962), prende vita nelle streets e avenues di Manhattan; il suo quinto libro, Se il sole muore (1965), in cui è rielaborata l’inchiesta sulla NASA e sui programmi spaziali americani è da subito un bestseller mondiale. 

Leggendo oggi le parole di Oriana si riscopre l’America degli Anni Sessanta, attraverso la dimensione quotidiana della vita a New York e sotto i riflettori di Hollywood (Jane Fonda, Liz Taylor, Richard Burton sono solo alcuni dei divi protagonisti delle sue pagine), seguendola nel viaggio on the road – accompagnata dall’amica Shirley MacLaine – alla scoperta delle ghost towns e alla ricerca dell’ultimo cowboy. In questi articoli la sua penna si posa leggera, ironica e talvolta irriverente a cogliere le sfumature a tinte forti di quel paese in cui Oriana si sentirà a casa: «mi piace il sorriso con cui i poliziotti del Kennedy Airport mi dicono tutte le volte che torno a New York: ‘Welcome home’, benvenuta a casa. Capisci? Sanno benissimo che la mia vera casa non è a New York, è a Firenze, eppure quando rientro mi dicono: ‘Welcome home’». 

Di New York veniamo a conoscere la campagna elettorale di John Lindsay, intento a stringere centinaia di mani in un profluvio di sorrisi e promesse, le innovative tendenze culinarie («Qui i broccoli, qualsiasi verdura, si compran così: lavati, puliti, refrigerati e rinchiusi con il condimento in un sacchetto di plastica») e la straordinaria efficenza delle compagnie telefoniche: «Non c’è nulla in America che non si possa fare al telefono, esclusi i bambini malgrado sia mia convinzione che presto anche i bambini si potranno fare al telefono, componendo un numero e via. Il telefono sostituisce i baci, gli abbracci, le strette di mano, al telefono ci si fidanza, ci si sposa, si divorzia, al telefono si ascolta la messa, si comprano sigarette e gioielli, si rintracciano amici perduti: magari con l’aiuto delle telefoniste che qui non sono sgarbate come in Italia e ti risolvono tutto, con voci di flauto, chiamandoti amore, tesoro, dolcezza, cavolino mio» (e sulla potenza, anche temibile, del telefono americano sono da leggersi anche le brillanti pagine di Beppe Severgnini in Un italiano in America). 

Di questa incredibile città, in cui il «drugstore non è una farmacia ma un negozio dove si comprano calze di nailon, cartoline, balocchi, profumi francesi, giornali, latte, gelato e oltre a essere un negozio è uno snack bar dove si mangia e beve», Oriana ci offre un ritratto unico, fatto di piccoli tasselli che vorrebbero ricostruire e svelare il segreto di un Paese in continuo movimento, talmente composito che più si conosce «più si diventa confusi», come confessa la MacLaine prima di partire: «Ma l’America vera, intera, qual è? Non lo saprai mai e dopo questo viaggio lo potrai solo intuire». Eppure con i suoi reportage Oriana ha saputo avvicinare gli italiani di allora a quel mondo lontanissimo, di cui ha colto la grandezza e le debolezze che ancora oggi si intravedono tra i grattaceli e le strade affollate di Manhattan e gli immensi spazi dell’altra America, «vuota per almeno un terzo della sua superficie, disabitata. E immersa in un lungo allucinante silenzio».

Spiccano in questa raccolta due ospiti d’eccezione, Cesare Zavattini e Pier Paolo Pasolini, entrati brevemente a far parte del microcosmo americano di Oriana. Il primo, preoccupato per il meccanismo delle mance e l’accumularsi di troppi fusi orari, si lascia impressionare e irretire da quel «Paese contagioso» che ammette «va accettato così: come una poesia, senza critica». Innamorato dell’America lo era anche Pasolini, triste per l’imminente partenza da New York, la città piena di grazia e di miseria in cui avrebbe voluto vivere i suoi vent’anni. Di New York infatti Pasolini non apprezzava tanto la bellezza fisica quanto la gioventù intrinseca, quella vitalità che «ti mette addosso la voglia di fare, affrontare, cambiare». 

In futuro Oriana, che già allora aveva trovato nella sua idea dell’America un riparo contro l’immobilità della società intellettuale e politica italiana, ne coglierà e descriverà ancora quella forza, eliminando però talvolta – e forse troppo negli ultimi anni – quei chiaroscuri e quelle contraddizioni che la sua penna era stata in grado di catturare nei suoi primi reportage. 

* Phd candidate in Italian studies, Harvard University

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Chiara Trebaiocchi

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