Il riscatto della Calabria nei confronti della malavita passa anche dalla chiesa. Il ruolo dei credenti che riusciranno a portare avanti il cammino, non solo della conversione, ma soprattutto quello della speranza, è determinante. È ormai una missione imprescindibile, quella di costruire nuovi percorsi di vita e nuove forme di identità attraverso ed in nome del Vangelo.
Sembrano parole da sermone, che addirittura stridono in relazione a territori dove regna l’omertà, la complicità e la chiusura totale. Ma questa è la sfida che la chiesa con la sua rete capillare dovrebbe cogliere e portare avanti, divenire quindi volano di questa nuova cultura del cambiamento. L’utopistico tentativo di cambiare lo spirito con cui si affronta l’esistenza, a certe latitudini. Esistenza che a volte perde il suo stesso significato, il suo stesso valore, e diventa niente.
Ci sono luoghi in Calabria in cui la vita vale niente. Forse 50 centesimi di un buon proiettile, se ben mirato. O forse due. E paradossale è il rapporto tra la malavita ed il culto religioso. Il male si consacra sull’altare di Dio, e prende delle connotazioni quasi liberatorie e salvafiche. Le affiliazioni sono vere e proprie funzioni in cui si giura fedeltà in nome San Michele Arcangelo che tiene sotto i piedi il maligno. Lui è il santo protettore della 'ndrangheta. Colui che scaccia il male diviene il riferimento divino per chi si macchia le mani di sangue. Molte volte si è cercato di capire il nesso tra certe usanze, ma come sempre si ragiona sulla carta e si conoscono poco i territori. Spesso si minimizza, si danno giudizi affrettati che non spiegano fino in fondo la natura di questi riti tra il sacro ed il profano.
Gli ndranghetisti sono tutti devoti e religiosi. Riconoscono in Dio Padre l’unico al di sopra della loro autorità e della loro potenza. Hanno timore di Dio, pur operando in suo nome anche le azioni più ignobili contro altri uomini. Paolo De Stefano, famoso boss di Reggio Calabria, amava definirsi il “braccio armato della madonna della montagna”. Come se fosse stata la Santa Madre a ordinargli chi doveva vivere e chi invece morire.
Ma ci sono passaggi torbidi, quasi inquietanti che nonostante la presunzione di buona fede, non lasciano scampo ad interpretazioni di sorta. La costante negazione dell’esistenza di questa organizzazione criminale da parte di molti prelati, tra cui non ultimo Don Pino Strangio, rettore del santuario di Polsi, considerato da tutti il luogo-rito della 'ndrangheta calabrese, nei primi anni '90 era un clichè comune. Dovette arrivare in Calabria Papa Giovanni Paolo II per chiamare le cose con il proprio nome e parlare apertamente di “mafia”. Fu la prima volta che venne pronunciata questa parola. Il 6 agosto 1994, durante l’arresto di Don Stilo gli furono trovate banconote provenienti dai riscatti dei sequestri del farmacista reggino Giovanni Labate e dell’imprenditore napoletano Carlo De Feo. Terrificante.
Nel libro dal titolo Santa malavita organizzata, Edizioni San Paolo, Annachiara Valle, giornalista di Famiglia Cristiana, affronta con lucidità i legami tra chiesa e malavita in Calabria. Ne viene fuori un testo ricco di notizie poco conosciute, che con chiara eleganza delinea una chiesa non sempre candida e pura. La postfazione di monsignor Giancarlo Bregantini, conclude in maniera onesta facendo tra le righe una netta distinzione nella parola chiesa: quella che il cambiamento lo vuole e lo realizza e quella che mantiene ancora tutto come ai tempi dei bravi e di don Abbondio, per poter mantenere il controllo sulle anime semplici.
“La 'ndrangheta non è facile da estirpare. Rinasce sempre. Sempre riprende, se non vigiliamo, le antiche posizioni che con fatica abbiamo vittoriosamente conquistato. E in questa vigilanza la chiesa ha un ruolo unico!” Giancarlo Bregantini