Illustri studiosi sostengono che Giotto, mentre eseguiva il ciclo di affreschi nella Cappella degli Scrovegni a Padova, ricevette la visita di Dante Alighieri Non a caso, personaggi, fatti e temi della sequenza pittorica sono disposti come in una narrazione, come in un poema. Infatti a Padova Giotto realizza un romanzo per immagini, utile anche a chi non sa leggere, utile cioè a chi conosceva il racconto della Bibbia solo per averlo ascoltato in chiesa o per strada.
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La rappresentazione per immagini colorate crea una suggestione che nessun predicatore poteva assicurare con le sole parole. Il lettore esperto, poi, ancora oggi guarda il ciclo giottesco proprio come leggerebbe un romanzo: salta le parti che giudica meno interessanti, si sofferma a “rileggere” quelle che richiedono una riflessione, si allontana momentaneamente verso storie laterali, corre verso il finale, verso lo scioglimento. Marcello Carlino, ordinario di Letteratura italiana alla Sapienza, Università di Roma, nel suo saggio «Gli scrittori italiani e la pittura», parte proprio dalla constatazione che certi quadri si leggono come un libro. Così come, simmetricamente, certe pagine si vedono come un quadro. E’ il caso, per esempio, del “Manifesto tecnico del Futurismo” del 1912: il verbo all’infinito, il dominio assoluto del nome-parola, la disposizione dei sostantivi a caso sono tutte espressioni del principio di “simultaneità” esplicitamente dichiarato nei manifesti dei pittori. In termini più filosofici si può asserire che la istantaneità voluta da Marinetti proietta il tempo sul piano dello spazio, esattamente come avviene in pittura.
Carlino affronta il tema del rapporto tra scrittura e pittura con la consapevolezza di chi si accinge ad un’impresa ardua, se non impossibile, perché le convergenze tra i mondi delle Muse Sorelle (Scrittura e Pittura) sono innumerevoli e non ancora classificate in un sistema concettuale definitivo.
Questo volume, perciò, si propone nel panorama della cultura specialistica come un primo tentativo di ordinamento metodologico che guidi l’inventario di testi letterari fortemente contaminati dalla pittura. Il piano proposto da Marcello Carlino prevede sei modelli di descrizione di “affioramenti” pittorici nelle opere di letteratura: Ekphrasis, Variazione e fuga, Cromatismi, Escussioni ed espianti, Allegorie, Sinestesie.
Per ragioni di spazio qui sarebbe impossibile fornire anche solo una rapida sintesi per ciascuno di essi, ma val la pena ricordare alcuni casi esemplari, partendo, inevitabilmente, dalla descrizione (“ekphrasis” appunto) dello Scudo di Achille nel diciottesimo canto dell’“Iliade”, unanimemente riconosciuto come l’archetipo del genere. Sulla medesima scia nel XVI secolo Giambattista Marino impiegherà diciotto ottave per descrivere la Maddalena di Tiziano, mentre D’Annunzio, nel “Fuoco”, sottoporrà all’attento sguardo del protagonista Stelio Effrena la Melencolia di Durer. La feconda relazione tra pittura e scrittura indagata da Carlino trova, tra i tanti, un altro campione straordinario nell’opera di Vincenzo Consolo, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, del 1976.
Il romanzo prende le mosse dal trasporto via nave da Lipari a Cefalù del celeberrimo ritratto eseguito da Antonello da Messina. Consolo – lo scrittore siciliano scomparso appena pochi mesi fa – descrivendo con letteraria acribia il volto dell’uomo misterioso, semina gli indizi della narrazione che sta per dispiegarsi in una fuga di racconti in cui vicende storiche e drammi personali si intrecciano in una lingua colta e composita. Questo caso rientra, pertanto, nella seconda categoria ermeneutica inventariata da Carlino: “Variazione e fuga, ovvero come ti continuo, scrivendo, un dipinto”.
La lettura di questo denso volume ci consente di rivedere da un’angolazione letteraria, e quindi di riscoprire, quadri che pensavamo di conoscere bene, oppure di leggere testi in prosa e in poesia componendo nella nostra mente grandi e piccole opere figurative.
Si pensi al “Castello dei destini incrociati”, in cui Calvino estrae da un mazzo di tarocchi – quindi di immagini, do viziosamente riprodotte nell’edizione Einaudi del 1973 – una girandola combinatoria di storie avventurose. Si pensi ancora ai continui richiami alla pittura che risuonano nelle cantiche dantesche: se l’inferno è descritto con colori “ingrommati da mescole e sedimentazioni impure”, nel Purgatorio dominerà la pittura vivida, policroma, dei grandi miniatori.
L’excursus di Carlino tocca De Libero, il Campana dei “Canti orfici”, Palazzeschi, Gozzano, Cassola, e tanti altri scrittori che non hanno saputo resistere al fascino della pittura.
Spicca tra questi il caso Pascoli. In alcuni testi compresi in “Myricae” (“Temporale”, “Lampo”), ma anche nei “Canti di Castelvecchio” (“La poesia”, “Il gelsomino notturno”), il poeta adopera tecniche di lavoro analoghe a quelle praticate dagli impressionisti in quel giro di anni. Tanto i pittori che lavoravano “en plein air”, quanto il fanciullino, partendo dalle cose piccole e dal mondo concreto che ci circonda riuscivano a guardare la realtà come per la prima volta e in questo modo riuscivano a conciliare i contrari e quindi a immaginare l’ultrarealtà fatta di mistero e di meraviglia.
[Marcello Carlino, «Gli scrittori italiani e la pittura», di Marcello Carlino, pp. 178, Ghenomena, Formia (LT), 2011, Euro 15,00]