Durante questi ultimi tre anni seguiti all’elezione di Barack Obama, la retorica con la quale il Partito Repubblicano ha articolato il suo ruolo di opposizione politica, ha assunto toni sempre più apocalittici.
Alla vigilia dell’approvazione della riforma sanitaria voluta da Obama e tramutata in legge nel 2009 ad esempio, le forze conservatrici iniziarono a far circolare tutta una serie di fandonie su presunti ’comitati governativi’ (i cosiddetti ’Death Panels’ come furono battezzati da Sarah Palin) incaricati di approvare o meno la somministrazione di cure mediche per i malati terminali e agitando, in questo modo, lo spauracchio di una fantomatica ed inesistente ’eutanasia di Stato’.
Altri proclami ugualmente clamorosi ma non per questo meno efficaci, sono stati messi intenzionalmente in circolazione ed incoraggiati dalla destra per compromettere la popolarità di Obama con l’elettorato come quelle paradossali, ma incredibilmente dure a morire, che il presidente sia, in realtà, musulmano o che il suo insediamento alla Casa Bianca sia illegittimo perché Obama non sarebbe nato in America ma in Kenya o in Indonesia.
Di pari passo con queste invenzioni, negli ultimi tre anni, il GOP ha formulato la propria narrativa politica in termini di ’Ora o mai più’ descrivendo la situazione attuale come quella di un paese pericolosamente vicino ad un punto di non-ritorno o, come ha detto Mitt Romney in uno dei suoi comizi elettorali, “in procinto di perdere per sempre la propria identità di libera economia di mercato”.
Se da un lato i toni iperbolici sembrano chiaramente esagerati, l’analisi strategica dalla quale essi nascono è del tutto giustificata dal momento che, guardando al futuro, il Partito Repubblicano vede chiaramente la possibilità concreta della propria estinzione. I mutamenti demografici in atto in America infatti, non sono incoraggianti per un partito la cui base elettorale è composta per lo più da individui in età avanzata, bianchi, meno istruiti e più religiosi. Un gruppo quindi che, sia dal punto di vista demografico che etnico che sociale diventa, col passare degli anni, sempre più esiguo. Una realtà questa, sintetizzata efficacemente dal giornalista John Judis e dal politologo Ruy Teixeira, nel libro, ’The Emerging Democratic Majority’ che delinea una situazione allarmante ma inconfutabile per i conservatori e che spiega la conseguente reazione all’elezione di Barack Obama con l’isteria retorica e con l’inflessibilità politica degli ultimi anni.
Nel loro libro, Judis e Teixeira hanno messo in luce come l’elettorato americano stia cambiando sempre più nella direzione opposta a quella che si identifica con la base repubblicana. Basti pensare al fatto che ogni anno, il numero di votanti appartenenti a minoranze etniche aumenta di ben due punti percentuali, soprattutto in quegli stati-chiave per gli equilibri elettorali come Colorado, Nevada, Arizona con la loro crescente popolazione ispanica o Virginia e Nord Carolina con il loro influsso di giovani studenti universitari.
Ora, di fronte alla possibilità di un lento e prolungato stillicidio, una parte della dirigenza del Partito Repubblicano sembra aver deciso di fare delle elezioni presidenziali del 2012 il campo di battaglia decisivo per riguadagnare posizioni nei confronti dei Democratici e per capovolgere la direzione ideologica delle politiche americane prima che queste diventino irreversibili e prima che il profilo demografico del paese releghi la destra in una situazione di perenne minoranza.
I primi segni di questa strategia da ’ultima spiaggia’, sono emersi già nel 2001 in un libro chiamato, a proposito, ’The Battle’ (La Battaglia) e scritto da Arthur Books, presidente del think tank conservatore American Entrerprise Insitute. Nel libro, Brooks ha dichiarato senza mezzi termini che “il passare del tempo non fa altro che peggiorare le cose per la destra conservatrice e per quei valori che essa sostiene” dal momento che “l’elettorato di Obama è composto soprattutto da giovani al di sotto dei 30 anni” vale a dire da coloro che “rappresentano il futuro del paese” e che, secondo Brooks, “dimostrano un’inquietante simpatia per lo statismo di stampo obamiano”.
L’inflessibile ostracismo politico mostrato dai Repubblicani durante i tre anni di governo Obama e la loro indisponibilità a qualsiasi tipo di compromesso, sembra essere stata la fase preparatoria di questa strategia a lungo termine che, in effetti, ha già dato dei risultati sorprendenti.
La netta affermazione repubblicana alle elezioni di medio-termine del 2010 e la nascita del Tea Party infatti, sembrano legittimare questa tattica del GOP. In quell’occasione infatti, approfittando del diffusissimo malcontento legato alla recessione economica da essi stessi creata, i conservatori sono riusciti, a sorpresa, a riconquistare il controllo della Camera dei Deputati spostando il proprio baricentro ideologico ancora più a destra e avvantaggiandosi del fatto che, passato l’entusiasmo per l’elezione del primo Presidente di colore, la parte più giovane dell’elettorato è ricaduta nella sua tradizionale apatia disertando le urne.
Il futuro del movimento conservatore americano quindi sembra incentrarsi sulle elezioni presidenziali di novembre. Con la Camera già a maggioranza repubblicana e con una vulnerabile maggioranza democratica al Senato, il GOP sogna un ritorno ai primi tempi dell’amministrazione di George Bush quando l’esecutivo ed entrambi i rami legislativi del parlamento si trovavano saldamente sotto il loro controllo consentendo alla destra di forgiare la politica americana a lungo termine grazie ad iniziative come la guerra in Iraq e la creazione di una maggioranza conservatrice alla Corte Suprema.
Se i conservatori vinceranno la loro scommessa, riusciranno almeno a rallentare, se non ad invertire, quell’inevitabile declino al quale sembrano condannati. Se le cose non dovessero evolversi in loro favore invece, la grande scommessa del partito sulla tattica del ’tutto o niente’ potrebbe risolversi disastrosamente in un nulla di fatto semmai accellerando la disfatta del partito.
*pubblicato precedentemente su www.lindro.it