Spigolando tra le biografie dei rampolli del “padre della patria”, tuttora ben assiso sul cavallo del memoriale di piazza Venezia a Roma, è d’obbligo iniziare dal personaggio più paparazzato, il principe di Venezia Emanuele Filiberto, ciuffoso prezzomolino di ogni idiota varietà televisivo. Deve esserci stato un calcolo, ai tempi fortunati del tycoon televisivo Berlusconi. Se tanto dà tanto, si deve esser detto qualcuno, inseriamo nel palinsesto il principe belloccio; sta a vedere che restauriamo la monarchia via consenso televisivo e festivaliero di mamme e sorelle d’Italia!
Sempre meglio del paparino, Vittorio Emanuele, arrestato in Italia il 16 giugno 2006 per reati comuni, membro della loggia P2 di Licio Gelli, indagato negli anni ’70 per traffico illegale di armi, che uccise in rissa col fucile un ragazzo tedesco in acque corse. Cialtrone, confessa a un detenuto di aver fatto fessa la polizia che lo indaga, e al telefono di non sopportare il puzzo dei sardi che fanno la fila per rendere omaggio al titolato successore dei re di Sardegna. Suo padre, Umberto II, “re di maggio” avrebbe avuto da ridire: ultimo in carica, fu sufficientemente patriota da collaborare con le forze politiche vittoriose sul nazi-fascismo, per evitare lo scontro tra monarchici e repubblicani salvando, con l’accettazione dell’esilio per sé e i discendenti maschi, il suo onore.
E’ crepuscolo melodrammatico e indecoroso per il casato che mise le sue fortune al servizio della nazione che costruì, da Carlo Alberto negli anni ’50 dell’Ottocento, contando su statisti del calibro di Cavour. Savoia, ambizioso quanto può esserlo una dinastia nata provinciale e montanara, si fece abbindolare da un ex maestro di scuola elementare e agitatore di squadracce violente, trasformandolo in primo ministro e padrone d’Italia. Il re imperatore divenne la vestale del regime, al quale conferì legalità e onorabilità internazionale, aspettandosi conquiste territoriali, conservatorismo sociale, privilegi dinastici. Finì nell’ignominia della caccia agli italiani di religione ebraica, nell’orrore della discriminazione e dello sterminio. Aveva accettato di trasformare un paese intero in suddito dell’ideologia totalitaria e razzista, per poi fuggire e abbandonarlo allo sbando e alle scorribande di eserciti stranieri. Solo la forza generosa della legalità repubblicana avrebbe potuto perdonare senza assolvere, riammettendo i maschi della famiglia nel 2002.
Per quanto paradossale, davanti ad una parabola dinastica così ingloriosa, viene da dire che nell’elenco di coloro che hanno pagato scotto all’unità nazionale, stanno anche i Savoia, visto che per aver confuso il proprio destino con l’Italia, hanno perso anche il reame d’origine, avviato quando il capostipite Umbertus Comes, Biancamano, nato intorno all’anno 1000, vassallo e funzionario dei re di Borgogna, si garantì il controllo di valli e passi a nord ovest delle Alpi, fra cui la Maurianne e Chablais, oggi rispettivamente francese e svizzero. Avrebbe completato quella prima mano l’energica Adelaide di Susa (1015-1091), sposa in terze nozze di uno dei quattro figli di Biancamano al quale portò in dote mezzo Piemonte facendo una figlia poi maritata all’imperatore Enrico IV, quello di Canossa. La progressione positiva è riassunta in poche date: marchesi nel 1060, duchi nel 1416, re nel 1458, re di Sardegna con Vittorio Amedeo II, massacratore dei Valdesi (1666-1732). Quella negativa trascorre tra la corona d’Italia del 1861 e l’esilio di Umberto II.
Perdenti alla roulette della storia, i Savoia restano i fondatori dell’unità nazionale. La miseria degli epigoni non cancella i meriti degli avi. Anzi, anche così il casato serve l’Italia: con tanti ottimi presidenti che ha avuto, il paese è vaccinato da ogni tentazione di restaurazione monarchica.