La copertina del libro; sotto Maurizio Molinari (a sin.) con il direttore de "La Stampa" Mario Calabresi, durante una recente presentazione di "Gli italiani di New York" a Torino (Foto di Erica Vagliengo)
Quando mi é arrivato in redazione il libro di Maurizio Molinari, “Gli Italiani di New York” (Laterza 2011), ho sentito un sussulto nelle viscere, di stupore e stizza, forse invidia, probabile un misto fritto dei tre. Ma come, in America da vent’anni e non mi toccava un libro cosí? O non lo avrebbe dovuto scrivere Antonino Ciappina, uno dei personaggi incontrati da Molinari, che prima col Progresso e poi con America Oggi, dopo mezzo secolo nella comunitá ne saprá di tutti i colori?
Lette le 250 pagine del viaggio tra gli italiani, italo-americani o, meglio, americo italiani – come direbbe il Prof. Anthony Tamburri – raccontato dal corrispondente de La Stampa di Torino, commosso ho capito. Giusto Molinari, il migliore tra i corrispondenti italiani a New York, poteva spiegare con la precisione di un’analisi arricchita da calorosa umanitá la vicenda dei figli dell’Italia a New York. Chiunque tra noi non avrebbe avuto quel distacco che guida Molinari, quel guizzo e gusto della scoperta. Per far capire agli italiani in Italia chi veramente siamo tutti noi, doveva cimentarsi un giornalista dallo spessore e sensibilitá di Maurizio, capace di non ripetere certi percorsi snobbistici che, da Prezzolini in poi, hanno prezzolato in Italia il racconto degli italiani in America.
La tesi di Molinari é tanto “rivoluzionaria” quanto semplice: gli italiani di New York sono sí di diversa generazione, condizione sociale, cultura, tutti con storie diversissime per come, dove e quando sono sbarcati qui. Ma durante questo percorso di vita a New York, tutti finiscono per possedere una stessa predisposizione caratteriale: “la convinzione che mettendocela tutta qui ogni risultato é davvero possibile”.
Sostiene Molinari che tra chi é arrivato negli ultimi anni con dietro un’azienda o per completare gli studi, o chi tra incredibili sacrifici vivendo da illegale col rischio di essere espulso e chi, seppur fiero nipote degli italiani che sbarcarono dai bastimenti, é pur sempre piú americano che italiano, tra tutte queste e profonde diversitá, c’é un gene comune che cementifica il gruppo. Non si trova nel “sangue italiano” che, per buona pace di chi lo agogna, non é mai esistito. Il gene si trova nel carattere, come dimostra “l’uso frequente di un’espressione per descriversi: ‘We are hardworking people’”.
Nelle tappe di Molinari tra gli italiani di New York, il lettore viene deliziato dai racconti su incontri che si susseguono in capitoli cosí suddivisi: “Il popolo”, “La fede”, “l’Italia”, “La politica”, “il business”, “Le arti”. Incontriamo coloro che tutti conosciamo, quei preti, ristoratori, professori, politici, baronesse, avvocati, giudici e mafiosi o presunti tali, ex calciatori-manager, camerieri, clandestini, commediografi, artisti e star pop e del cinema… tutti coloro che lavorano sodo, come la giovane clandestina-cameriera e mamma Francesca di Latina, che conferma: “in questa cittá nessuno ti giudica o ti chiede, l’unica cosa che conta é lavorare”.
Ma la malattia del faticare per raggiungere l’obiettivo, da sola non puó farti distinguere come italiano a NYC. C’é ben altro, anche oltre al gusto giusto, come lo chef lucchese Cesare Casella di “Salumeria Rosi” o il pizzaiolo siciliano Santino Battiato di “New Pizza Town” ci garantiscono nei pressi di “Piazza Verdi” (Molinari ci delizia anche con gli spassosi aneddoti di malavita e meatballs del celebre Rao’s nell’East Harlem con “Frankie no” e “Fat Tony”…).
Ma c’é di piú. Come confessa a Molinari Nicholas Di Marzio, il vescovo super lavoratore nell’enorme diocesi di Brooklyn-Queens: “Qui é come in Italia, per gli italiani la cosa piú importante é la famiglia, dopo viene il resto, fede inclusa”. E poi c’é il prete di Bensonhurst Ronald Marino, padre di Corleone e madre di Enna, che fa entrare Molinari e il lettore “nelle viscere di New York”. Da giovane gli toccava celebrare messa con accanto il boss Charles Gambino… Ora nella parrocchia di Santa Rosalia Regina Pacis, Don Marino si occupa soprattutto di aiutare i clandestini, di cui migliaia sono ancora italiani. Il “vicario dei migranti” é duro: “E’ bene che in Italia si sappia che molti italiani sono clandestini, perché da voi quando si pronuncia questa parola ci si riferisce solo a morocchini, albanesi, senegalesi e romeni”. I clandestini italiani vivono una realtá di lavoro piena di sacrifici “perché non possono tornare in Italia e restano lontani da feste e lutti dei famigliari stretti, soffrendone molto…”.
Ma tra gli italiani a New York incontrati da Molinari, si passa anche al “guru delle modelle” Paolo Zampolli. Dopo aver fatto girare con la sua agenzia centinaia di top models per il mondo, adesso ha “diversificato” il suo business vendendo appartamenti e loft di lusso a Manhattan, servendosi sempre delle sue bellissime modelle come agenti immobiliari, capaci di attirare la clientela piú ricca che vuole scoprire le zone sempre piú “trendy”.
Tantissimi i personaggi incontrati da Molinari, quindi consigliamo agli italiani di New York di andarli a scoprire nel libro, molti li conoscerete giá e ognuno potrá identificarsi in qualcuno.
E questi 3 milioni e mezzo di italiani residenti nella Greater New York (italici li chiamerebbe Piero Bassetti), rappresentano anche una sfida per l’Italia che tra i sensi di colpa, ha rimosso il peccato senza mai espiarlo. Nell’incontro avuto con il Prof. della NYU Franco Zerlenga si svela il contenuto di una circolare del Ministero degli Esteri italiano che l’accademico ricevette nel 1977 mentre lavorava all’Istituto di cultura di New York e che ancora lo fa rabbrividire: “Si suggeriva al direttore dell’Istituto di Cultura di non avere rapporti con gli italoamericani…”. E continua Zerlenga con rabbia: “Era passato oltre un secolo dall’arrivo dei primi immigrati italiani in America, ma la patria d’origine ancora non si fidava di loro a causa dell’ostilitá che circondó quella partenza in massa”…
Molinari ci racconta tutti, ma forse cerca anche di scuotere l’Italia per farle riconoscere la sua forza per il futuro: continuare a sfornare il carattere piú predisposto per essere cittadini di New York, ovvero del mondo.