Nella foto, scontri tra polizia e dimostranti a Reggio Calabria nel 1970
Rivolta fascista, addirittura golpista ed eversiva, cosi` giornali e tv bollarono quaranta anni fa i moti di Reggio Calabria. Giudizio sbrigativo e parziale su una sollevazione popolare come mai se ne sono verificate nel nostro Paese. Sette mesi di devastazioni e scontri, scioperi e blocco totale di scuole, trasporti e uffici pubblici, dopo lo "scippo" della sede del capoluogo di regione. Una vicenda nata da un fatto di prestigio mancato, e di relativo indotto economico andato in fumo, ma fu soprattutto l’ennesimo segnale della distanza che separava lo Stato da quel territorio, uno Stato incapace di capire quel popolo che si sentiva umiliato e condannato anche al sottosviluppo politico, oltreche´ economico.
I fatti di quei terribili mesi dal luglio 1970 al febbraio 1971 vengono ora ricostruiti nel volume «La lunga notte della rivolta» scritto da Mimmo Nunnari, giornalista reggino e attualmente vicedirettore della Tgr Rai (pp.174, Laruffa Editore, Euro 23). E` un volume ricco di cronache e approfondimenti. Nunnari cerca anzitutto di chiarire quanto sia vera la piu` grave di tutte le accuse, cioe` che la rivolta avesse fini golpisti.
« Questo libro – dice Nunnari – e` stato scritto per chiarire cio’ che accadde durante la sollevazione popolare urbana piu` lunga e drammatica del Dopoguerra, rimasta nella memoria collettiva del Paese col marchio bugiardo di rivolta fascista. I giudizi e le opinioni di autorevoli personalita` della politica, della cultura e del meridionalismo di quel periodo, riportati nel libro, a cominciare dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, a Giovanni Spadolini, a quell’epoca direttore del Corriere della Sera, a Peter Nichols editorialista di The Times e poi a Nicola Adelfi, Luigi Maria Lombardi Satriani, Nicola Zitara, Fortunato Seminara e altri, sono stati oscurati e ignorati da una congiura mediatica e politica che ha voluto appiccicare ai moti di Reggio l’etichetta di destra, mentre si trattava di una ribellione autenticamente popolare da inquadrare storicamente nell’a`mbito delle ribellioni meridionaliste con motivazioni essenzialmente legate all’assenza colpevole di uno Stato occhiuto e non governante, distante e con atteggiamento coloniale». In effetti, fuori dalle schematizzazioni ideologiche, anche all’epoca era difficile considerare eversive le anziane massaie vestite di nero che manifestavano a Piazza Italia, o i ragazzi che lanciavano sassi e oggetti contro la polizia, o i facinorosi che per protesta contro lo Stato distruggevano pezzi della loro stessa citta`. In realta` era rabbia per una decisione sgradita, che vedeva l’onore della citta` calpestato dal governo guidato dal Dc Emilio Colombo, e vedeva soprattutto svanire centinaia di possibili posti di lavoro.
L’etichetta di rivolta fascista, al grido di “Boia chi molla”, fu attribuita ai moti di Reggio dopo che a capo dei contestatori si ritrovo` un sindacalista fino a quel momento ignoto ai piu`, Ciccio Franco, dirigente locale della Cisnal (vicina al Msi di Almirante). In realta` Franco si limito` a occupare il vuoto creato dalla fuga della locale classe dirigente dell’epoca, dei partiti di governo e opposizione (Dc, Psi e Pci) e dei sindacati (Cgil Cisl, Uil) che, di fronte alla scelta di Catanzaro quale capoluogo della nascente Regione Calabria, eccepirono poco o nulla e non ne compresero la valenza politica negativa per la sensibilita` dei reggini.
La Destra prese la guida di quella spontanea sollevazione popolare, prprio perche´ gli altri storcevano il naso, senza capire. La rivolta di Reggio si concluse il 23 febbraio 1971 con l’arrivo dei carri armati in citta`, ultima ferita di quella infelice stagione.
Ricorda Nunnari nel suo libro che "era la prima volta, nell’Italia repubblicana e post fascista, che il Governo decideva di far ricorso a inusuali forme di repressione, per motivi di ordine pubblico. Ma apparve chiaro che si tratto`, in realta`, di una manifestazione di debolezza del Governo stesso, di un agire disinvolto in un territorio in cui i diritti, la diffusione dei valori e la presenza delle istituzioni, non erano stati mai introdotti con la stessa convinzione con cui erano stati stabiliti altrove".