Spesso, quando si parla della popolarità del regime fascista in Italia, storici e giornalisti amano ripetere che questo cominciò a perdere consensi quando, nel 1938, varò le leggi razziali. Il fatto è comunemente accettato, ma ha finito col diventare una sorta di scusa per giustificare quello che accadde dopo. È vero che l’antisemitismo biologico e folle del nazismo non c’entrava niente col carattere e le tradizioni della cultura italiana, ma le persecuzioni di cui gli ebrei furono vittime durante la Seconda guerra Mondiale non erano “tutte opera dei tedeschi”. Ci voleva il documentatissimo libro L’alba ci colse come un tradimento (Mondadori, 2010), scritto dalla storica Liliana Picciotto, una delle maggiori esperte in Italia delle politiche fasciste riguardo la popolazione ebraica, per ristabilire alcune verità. Per ricordare ad esempio che carabinieri e polizia collaborarono attivamente allo svuotamento dei ghetti, che furono italiani i carcerieri degli ebrei destinati ai treni per Auschwitz, che importanti uomini politici regolamentarono “la caccia ai giudei”. L’Italia restò il Paese della “brava gente”, nascondendo una macchia che ora è diventata visibile. Ne abbiamo parlato direttamente con la professoressa Picciotto.
Come mai l’Italia è riuscita sostanzialmente a evitare di fare i conti con le sue responsabilità riguardo la persecuzione dei cittadini di origine ebraica?
«Per più di un cinquantennio i responsabili delle istituzioni non hanno guardato al regime fascista come qualcosa che li riguardasse ma come una parentesi storica da dimenticare più velocemente possibile. Questo ha riguardato sinistra, destra, centro. Nessuno per tanto tempo ha considerato il fatto che la generazione che viene dopo il disastro, le ferite inferte, le morti provocate porta moralmente una responsabilità morale, da riscattare con lo studio, la riflessione, la consapevolezza. A ciò si è aggiunta una storiografia tardiva che è fiorita solo negli Anni Ottanta del secolo scorso. Per decenni nessuno aveva saputo che cosa era accaduto agli ebrei ed era diffusa la convinzione che la Shoah non avesse neppure sfiorato l’Italia. Approfitto di questa tribuna per rimarcare, ancora una volta se ce ne fosse bisogno, che la ricerca scientifica in campo storico deve essere coltivata e assecondata con tutti i mezzi. Solo grazie ad essa noi possiamo avere una cognizione oggettiva degli accadimenti del passato e illuminare i nostri passi per il futuro».
I membri più in vista della Repubblica Sociale condividevano le idee naziste sugli ebrei oppure subirono la realizzazione dei piani di sterminio appoggiarli?
«Parteciparono anche se senza convinzione. In Italia non c’era antisemitismo militante, caratteristico di altre nazioni. Non era di moda, non era giudicato politicamente utile, non era diffuso fra le masse che conoscevano solo l’antigiudaismo cattolico e letterario. Fu il fascismo ad inaugurare l’antisemitismo politico. Chi fra burocrati e ministri vi aderì lo fece più per convenienza politica che per convinzione. La persecuzione in Italia fu applicata come se fosse un normale problema amministrativo che non coinvolgeva le coscienze. In questo senso non si può dire che gli italiani parteciparono con convinzione ai piani di sterminio, ma vi parteciparono come partecipavano alle molte abitudini proposte o imposte dal regime».
Le forze dell’ordine avrebbero potuto sottrarsi al volere dei tedeschi o almeno evitare di collaborare attivamente nelle operazioni di cattura? Per quale motivo i ghetti di Mantova e Venezia vennero rastrellati solo dagli italiani?
«La risposta è sempre la stessa. Una delle cose francamente inquietanti di questa vicenda è che per davvero carabinieri cercavano di avvertire i prossimi arrestandi, per davvero i poliziotti liberavano dalle catene le persone che portavano a Fossoli, per davvero i comandanti dei campi di concentramento provinciali andavano a fare quattro chiacchiere con i prigionieri, per davvero scambiavano sigarette con gli internati. Semplicemente applicavano quello che era stato chiesto e non avevano bisogno per questo di usare violenza, nessuno gliela aveva mai richiesta. In Italia tutto si svolse nella massima calma. I tedeschi, una volta conclusa la fase delle loro retate, lasciarono fare agli italiani».
Che conoscenza avevano i modenesi della funzione del campo di Fossoli e del destino di chi vi veniva rinchiuso?
«Penso nessuna, Quelli che conoscevano perfettamente il campo e i suoi meccanismi erano soprattutto i fornitori che quotidianamente si recavano al campo. Quelli si, erano al corrente di tutto, delle partenze, dei nuovi arrivi».
Come mai Fossoli, pur essendo da tempo adibito a museo, non è diventato un “luogo della memoria” alla pari di tanti altri centri dove venne realizzato il progetto di annientamento nazista?
«Il ruolo fondamentale che Fossoli ebbe nel progetto di Shoah in Italia non è mai stato valorizzato perché ad impedirlo ci sono state stratificazioni di memorie: prima campo per militari alleati catturati in Nord Africa, campo per ebrei, campo per internati civili, campo per prigionieri accusati di delitti politici e, nel dopoguerra, campo per profughi giuliani e dalmati, campo per bambini orfani di Don Zeno. Si può parlare più che di campo di Fossoli di campi di Fossoli, al plurale. Ognuno di essi va studiato a parte e va messo in relazione al suo contesto causale non, come si è fatto fino ad oggi nel suo divenire temporale. In questo modo si mette ogni storia sullo stesso piano e non è corretto».
Ci furono casi di ebrei uccisi o lasciati morire nei campi italiani?
«Si, senz’altro si sono verificate uccisioni nel campo di San Sabba benché questo sia stato, quanto agli ebrei, prevalentemente un campo di transito per la deportazione. Anche a Fossoli si verificarono uccisioni di ebrei, ma i nazisti non volevano creare allarme né confusione perciò si guardarono bene dall’usare violenza gratuita. Sui prigionieri politici invece fu praticato un eccidio di massa con l’uccisione mediante colpo d’arma da fuoco alla nuca di 67 di essi il 7 luglio 1944 al poligono di tiro di Cibeno a poci chilometri da Fossoli».