Per gli italiani degli anni ’60, la nascita dell’Adelphi ha sicuramente rappresentato un punto di svolta. In un contesto letterario dominato da case editrici e da giornali strettamente schierati sul piano culturale e politico, ha offerto una visione nuova e provocatoria e ha invitato tutti a pensare, attraverso le pagine dei suoi libri, in modo diverso e non convenzionale. La scelta di seguire questa strada, però, era nata in anni lontani e segnata dalle vicende che avevano preceduto la Seconda Guerra Mondiale.
Alla storia delle origini e dello sviluppo di questa straordinaria iniziativa editoriale, la Bookhouse del Centro Primo Levi, il sofisticato spazio di lettura e discussione nato per iniziativa dello stesso Centro in collaborazione con la American Sephardi Federation e Dan Wyman Books, ha dedicato una interessante serata. L’occasione è stata la presentazione del libro scritto da Anna Ferrando, intitolato Adelphi: le origini di una casa editrice (1938-1994) e pubblicato nel 2023 da Carocci.
Attualmente impegnata come “fellow” alla Italian Academy for Advanced Studies della Columbia University e ricercatrice di Storia Contemporanea al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Pavia, Ferrando ha al suo attivo diverse pubblicazioni dedicate allo studio degli agenti letterari e delle traduzioni negli anni del fascismo. E proprio da questi approfondimenti è nata la curiosità che ha portato al libro.
In questo, la studiosa ha tracciato una lunga storia, che parte dall’incontro casuale e dall’amicizia, durante gli anni della persecuzione razziale, di due personaggi particolari come Luciano Foà e Roberto Bazlen.
“La mia idea di scrivere questo libro arriva da lontano – spiega Ferrando -. Arriva dagli studi che ho fatto per il dottorato di ricerca e che riguardavano l’agenzia letteraria internazionale fondata a Milano dal padre di Luciano Foà, che è stata la prima in Italia e che si occupava di proporre letteratura straniera in un momento in cui la regola del regime era l’autarchia. Studiando quella storia mi sono incuriosita perché mi sono accorta che parlando dell’Adelphi tutti citavano Roberto Calasso, che certamente lo merita perché ne ha fatto una grande casa editrice non solo nazionale ma anche internazionale. Tuttavia, puntavano solo sul presente e ignoravano il passato. Per questa ragione ho voluto scavare nelle origini, retrodatando la storia forse in maniera un po’ ambiziosa e magari provocatoria al 1938, l’anno delle leggi razziali. Per conto mio la casa editrice fa di quella storia, quella delle persecuzioni razziali, un’ispirazione anche culturale per il suo progetto. E poi l’ho chiusa nel 1994, l’anno del primo governo Berlusconi, che è anche l’anno in cui Adelphi pubblica il primo testo antisemita”.
Proprio nel mondo dell’antifascismo, racconta l’autrice, si incontrano nel 1937 a Milano e si legano in una profonda amicizia Luciano Foà, che già conosce bene il mondo dell’editoria grazie a suo padre ed è un lavoratore scrupoloso e preciso, e Roberto Bazlen, detto Bobi, traduttore e critico letterario idealista e sognatore. A poco a poco, il cerchio si allarga. La coppia si incontra con Adriano Olivetti, che ha in mente di fondare una casa editrice per ricreare il panorama culturale dopo il fascismo, e nel gruppo entrano anche Alberto Zevi, imprenditore conosciuto durante l’esilio in Svizzera, e Giorgio Colli, storico, filosofo e traduttore che insegnava all’Università di Pisa e proveniva da una famiglia torinese solidamente antifascista.
Quando l’Adelphi viene creata nel 1962, senza un soldo e solo grazie all’aiuto finanziario della Banca Commerciale, di Raffaele Mattioli e di Roberto Olivetti, sarà proprio Colli, studioso di Friedrich Nietzsche, a proporre un’edizione critica dell’opera completa dell’intellettuale tedesco, compresi gli epistolari, fino a quel momento custoditi gelosamente negli archivi di Weimar, in Germania. E quel libro, che proponeva una cultura molto diversa da quella dominante in quegli anni, più individualista e antidogmatica, darà l’avvio a una serie di altri passi coraggiosi, dalla pubblicazione di autori rifiutati dagli editori tradizionali come Einaudi al sostegno della psicoanalisi. I “libri unici”, spesso invenduti, sono stampati su carta di prima qualità e hanno copertine a livello grafico nuove e invitanti. Il bilancio resta precario, ma il mondo culturale del tempo comincia a notare la nuova e rivoluzionaria iniziativa e a leggere autori che si chiamano Hermann Hesse, Milan Kundera e Georges Simenon. Nel gruppo entra, giovanissimo, anche un brillante Roberto Calasso, che diventerà direttore editoriale nel 1971.
“Scrivendo il libro – continua Ferrando – ho avuto molte sorprese, anche perché ho avuto la fortuna di poter lavorare anche sugli archivi privati grazia alla gentilezza di Anna Foà, figlia di Luciano, ed Elisabetta e Susanna Zevi, figlie di Alberto. Un’altra sorpresa è stata la scoperta di una corrispondenza anche molto dura tra Luciano Foà e Roberto Calasso che evidenziavano una concezione molto diversa di fare editoria”.
Proprio dal contrasto tra Foà e Calasso, nel 1994, in particolare per la decisione del secondo di pubblicare un volume chiaramente antisemita del controverso scrittore francese Leon Bloy, il gruppo si frantumerà e il solo Calasso resterà alla guida di una casa editrice ormai affermata, ma anche diversa. A giudizio della scrittrice, si chiude così una storia che meritava di essere conosciuta.