Due fratelli riflettono sul padre. In musica. In danza. La composizione che ne scaturisce, Reflections, che ha debuttato al New York Theatre Ballet è sicuramente unica. Difficilmente due fratelli hanno raccontato con i loro diversi talenti uno stesso padre, con ricordi e storie diverse. La musica di Federico Pelle racconta un padre diverso da quello delle danza di Marco Pelle. Una bella sfida.
“Io dico sempre che in una famiglia ci sono tanti genitori quanti sono i figli cioè io e mio papà abbiamo avuto un rapporto, Federico e mio padre un altro, come accade in tutte le famiglie – ha esordito Marco Pelle – Quando mi hanno chiesto di fare questo lavoro mi è sembrato etico dare a mio fratello la stessa possibilità di raccontare il padre. Federico si è affidato alle sensazioni legate alla scomparsa di papà, mentre io l’ho ricordato in vita, negli anni ’90 quando c’era questa dolcezza molto profonda tra me e lui e insieme un contrasto molto forte per la danza. Mio padre è diventato un respiro in più nei miei respiri”.
Un respiro che appare chiaramente nella coreografia, quando il danzatore che interpreta il padre si ferma al centro della scena e assume una posizione che ricorda quella dell’aquila nello yoga, mentre la mano batte come il cuore. L’espressività delle braccia è caratteristica della danza di Marco Pelle. Diventato ballerino tardi, proprio perché il padre si opponeva a questa sua passione coltivata nel silenzio della sua stanza – ballavo con la porta chiusa e se qualcuno entrava smettevo, ho passato tutta la vita a coreografare i miei balletti senza saperlo, dice -, Marco Pelle è oggi uno dei coreografi italiani di balletto più noti e richiesti: ha creato per Alessandra Ferri e Roberto Bolle, per citare due amici oltreché fantastici ballerini, è coreografo in residence del New York Theatre Ballet dal 2003.

Federico invece è un autodidatta nella musica. “Mio nonno materno mi ha insegnato a suonare il mandolino quando avevo quattro anni – ricorda nella chiacchierata che facciamo via whatsapp – a sei da solo ho iniziato a suonare il pianoforte, poi l’ho studiato un po’ al liceo perché la mia scuola imponeva lo studio di uno strumento musicale. L’armonia e composizione l’ho studiata da solo e sono diventato un arrangiatore per artisti importanti, sono vicedirettore del conservatorio di Castelfranco e ho una cattedra al conservatorio Abbado Di Milano. Ma la mia prima composizione l’ho fatta proprio per una coreografia di Marco, Solitude, venti anni fa.”
Marco: “Federico studiava legge e ha lasciato per la musica. Io economia e ho mollato per fare danza. Entrambi abbiamo combattuto per vivere delle nostre passioni.”
La musica di Federico Pelle inizia con il suono del mare, tanto caro al padre, poi si dipana in momenti molto diversi. “Sono uscito dalla mia “comfort zone”, la musica tonale, anche romantica, perché sentivo che dovevamo cercare di attraversare quel macramè di sentimenti che si provano quando un genitore scompare. Quindi ho creato una serie di cambi di armonia, di direzione. In un brano mentre i timpani scandiscono l’incedere del tempo sempre uguale, un susseguirsi di accordi che si spostano di tonalità cambiano il tempo musicale come variano i sentimenti. È stata una grande sfida per Marco perché ha dovuto cercare una via alternativa per contare.”
Marco la sfida l’ha raccolta come sempre. Quando finalmente è riuscito a studiare danza aveva 20 anni, a 22 anni era già a New York. “Sono un po’ scappato dall’Italia, dal mio papà, e ho fatto una vita allucinante, senza casa, senza sapere l’inglese, senza niente. Ma avevo chiaro che volevo vivere di danza e sentirmi libero. Sono andato a studiare da Merce Cunningham, ho vinto 12 borse di studio, e la sua danza mi ha liberato, è talmente asettica e pulita che non conosce epoche, un braccio che va da una parte, l’altro dall’altra, la testa, il corpo: è un cubo di Rubik. Poi sono andato a Detroit dove ho ballato nella compagnia di Laurie Eisenhower e ho conosciuto il direttore dell’Opera di Detroit, David Di Chiera, italo-americano, parlava italiano perfettamente e mi ha accolto nella sua famiglia. E’ stato lui a chiedermi: hai mai coreografato? Avevo 25 anni, mi ha affidato ad un regista, Mario Corradi, con cui ho cominciato a fare coreografie d’opera e lì ho capito che non ero nato per fare il ballerino ma per fare il coreografo.

Dici che volevi sentirti libero in America…
L’America mi ha dato un giorno infinito e una notte infinita, la libertà della luce del sole, la libertà della notte, dove puoi essere chi vuoi, fare quello che ti senti di fare, diventare la persona che vuoi diventare. New York non ha nessuna forma di preconcetto rispetto a chi vuoi essere.
Cosa conservi dell’Italia?
Il bisogno di creare bellezza, che poi ci riesca è un altro discorso, però cerco queste linee, queste proporzioni statuarie. Ho fatto un lavoro, Statuesque, con l’Istituto Italiano di Cultura di New York e di Washington e l’Ambasciata, interpretato dai due primi ballerini de La Scala, Marco Agostino e Martina Arduino, che forse è la mia più grande dedica d’amore all’Italia, alla bellezza.
In Italia hai progetti?
Uno molto bello di cui ancora non posso dire. Poi insegno alla Bocconi GuiDance, un corso aperto a tutti gli studenti. Quando ho iniziato a studiare danza un’insegnante mi ha detto: avresti la velleità di diventare ballerino? Io non lo dirò mai a nessuno, il mio corso è aperto a tutti, “judgment free”.
Senza giudicare dici, tu che hai dovuto superare il giudizio severo di tuo padre sulla danza e immagino anche quello sulla tua omosessualità…
È incredibile: per mio padre è stato molto più facile accettare l’omosessualità che la danza. Non si è mai capita ‘sta roba. Quando glielo ho detto, avevo poco più di vent’anni e pensavo: qua verrà giù di tutto. E invece mio padre mi ha detto: sento che ti sei tolto un peso enorme. Poi ha fatto un percorso meraviglioso non di accettazione, perché l’accettazione è un movimento dall’alto verso il basso, ma di comprensione profonda. E anche della mia danza poi era molto fiero.
