A 67 anni, Angelo Cannavacciuolo ha esplorato tante sfaccettature dell’arte. Nato ad Acerra, inizia la carriera da attore a Napoli, ottenendo successo con “Le occasioni di Rosa” nel 1981, prima di recitare accanto a Marina Suma in “Sapore di mare” nel 1982. Dopo alcune altre apparizioni cinematografiche diventa scrittore e regista. Nel 2010 ha organizzato la rassegna di letteratura “Parole in viaggio” e ora il suo quarto romanzo, “Le Cose Accadono”, è arrivato negli Stati Uniti con il titolo “When Things Happen”. Un libro che verrà presentato il 10 ottobre all’istituto Italiano di Cultura di New York.
Angelo Cannavacciuolo, come nasce il libro che presenterà a New York?
“Questo romanzo nasce dall’esigenza di coniugare l’interiorità di un uomo, la visione del suo progetto di vita e l’inatteso quanto dirompente suo coinvolgimento nel mondo che lo circonda, una volta che le cose cominciano ad accadere. Al tempo stesso, un tentativo di mettere a nudo il senso di precarietà che aleggia in tutti noi. Fin dai primi momenti di gestazione, ho sempre immaginato questo romanzo come un viaggio nella storia personale del protagonista Michele Campo, dalle origini fino a quello che è diventato ad un certo punto della sua vita, vale a dire fino a quando una voce dal profondo gli chiede di fare i conti proprio con l’uomo che è diventato. E mi piaceva immaginare questo viaggio come un ponte lanciato nei territori accidentati della sua coscienza, dove spesso si ritrova a procedere per sfinimento, dove molto spesso la ragione e il cuore non trovano né risposte né armonia. Michele Campo si trova a vivere una vita ovattata, tutto preso dal progetto di portare a termine la sua compiutezza di uomo. È al sicuro nella vita che si è costruito: tiene fuori dalla porta il “chiacchiericcio del mondo”, la contemporaneità, il rumore di fondo e le voci che lo circondano. Poi, improvvisamente, accade ciò che non pensava sarebbe mai accaduto: Martina, una bambina di cinque anni, ospite di una casa-famiglia dove lui collabora come logopedista, irrompe nella sua vita. L’ingresso di Martina nella sua vita, lo spinge a snocciolare, con partecipazione e stupore, gli eventi che gli accadono intorno, e a ricordare il suo passato. C’è un mistero nella vita di quella bambina che gli riguarda molto da vicino”.
Lei ha una connessione speciale con New York. In che modo la città ha influenzato la sua scrittura?
“New York è stato il mio primo approdo americano. Erano gli anni Ottanta, ed ero un ragazzo. Ho cominciato a conoscere la città attraverso grandi autori come Philip Roth, De Lillo, Paul Auster, Joan Didion. Ma è stata la città a insegnarmi i codici che poi sarebbero diventati i punti fondamentali della mia scrittura. Di questa città, nel tempo, ho imparato ad assorbirne il cuore pulsante, viverla giorno dopo giorno, godere dello scintillio perpetuo, vivere le mutazioni, le trasformazioni che l’ha vista a volte piegata sulle ginocchia, ma subito dopo rialzarsi e mirare a una nuova palingenesi. Ciò che amo di questa città, è l’anima indomabile. Credo che sia stata proprio New York a fornirmi i primi strumenti indispensabili a una narrazione che dalle immagini è confluita nella narrativa. E se ho scritto un romanzo dal titolo SACRAMERICA, lo devo proprio a quel nucleo pulsante di vita che una città come questa mi ha lasciato in eredità. Qui ho tanti amici, e ogni volta che ci ritorno mi sembra sempre di tornare a casa”.
Nel corso della sua carriera ha sperimentato sia il mondo del cinema che quello della letteratura. Qual è la differenza più significativa tra queste due forme d’arte?
“Quest’anno cade il quarantennale della mia carriera artistica. In fondo, sono un narratore, lo sono sempre stato, forse sono nato narratore. E ho sempre amato attraversare tutti i territori accidentati della narrazione. Sono stato un attore, e con la recitazione narravo con il corpo e la voce. Poi ho cominciato a scrivere per il cinema, costruendo sulla carta la narrazione che diveniva immagine. Come regista ho pensato poi alle immagini visive come conseguenzialità temporale della stessa narrazione. Sono passato dal racconto per immagini a quello della scrittura, sia per il teatro che per la letteratura. In realtà, non esiste una grande differenza tra queste forme di narrazioni. È solo una questione di codici, e i codici si possono imparare. Esistono tante scuole che insegnano la tecnica di questi codici. Ciò che non si può imparare, invece, è il senso della narrazione, che è qualcosa che appartiene a ciascuno di noi geneticamente. È dentro di noi. E se non ce l’hai, puoi imparare tutti i codici che vuoi, non sarai mai un narratore”.
“When Things Happen” è stato tradotto in inglese da Gregory Pell. Com’è stato vedere il suo lavoro sbarcare negli Stati Uniti?
“Questa pubblicazione è stata possibile anche grazie alla traduzione di Gregory Pell. Il tentativo era quello di restituire in una lingua diversa il senso più profondo della mia storia. E lui ci è riuscito. È stato entusiasmante lavorare con lui. Alcuni miei romanzi sono già stati tradotti in Europa, ma questa pubblicazione negli USA ha un sapore speciale, se si pensa che l’editoria americana è sempre stato poco interessata alla letteratura internazionale. La possibilità di raggiungere un vasto pubblico di lingua inglese è un punto di arrivo e di partenza al tempo stesso. Ma, a dire il vero, ciò che è davvero interessante, che non mi aspettavo, è l’apprezzamento da parte di critici, scrittori e intellettuali americani. Anche se è il pubblico poi a decretare il successo di un romanzo. Per questo abbiamo pensato a presentarlo, oltre che a New York, anche a San Francisco e a Los Angeles”.
Lei ha organizzato la rassegna di letteratura internazionale “Parole in viaggio” a Pompei nel 2010. Qual è il ricordo più significativo che ha dell’evento e come ha cambiato la sua visione della letteratura internazionale?
“Quella negli scavi di Pompei del 2010 è stata la prima edizione di Words In Journey (Parole in Viaggio), ed è quella alla quale siamo tutti più legati. Una serata di grande letteratura internazionali con ospiti del calibro di Gore Vidal e Jay Parini. Stare sul palcoscenico del Teatro Grande di Pompei e conversare con Gore Vidal, trascorrere tre giorni in sua compagnia è un ricordo che conserverò per sempre, insieme ai tanti aneddoti sulla sua vita, che mi ha raccontato. A quell’edizione ne sono seguite altre sei nelle località più belle e rinomate della Campania. Napoli, Sorrento, Ravello, Scala, Salerno. Con ospiti come Jeffrey Deaver, Jim Nisbet, Tracy Chevalier, Arturo Perez Reverte, Philippe Claudel, Etan Canin e tanti altri. E da tutti loro ho imparato molto. Ed è stato attraverso lo studio delle loro opere che ho costruito maggiormente la mia conoscenza della letteratura internazionale. Una conoscenza che ha finito indubbiamente per influenzare anche il mio modo di narrare”.