Oggi siamo in tante e tanti a sentirci più soli; se ne è andata una delle voci più libere e anticonformiste che l’Italia conoscesse. Si è spenta a Roma a 51 anni la scrittrice Michela Murgia; era malata da tempo, e lo scorso maggio in un’intervista al Corriere della Sera aveva annunciato di avere un tumore al rene al quarto stadio, con metastasi. I dettagli sono importanti; Murgia li ha voluti rendere noti. In una delle molte interviste rilasciate in questi pochi mesi, aveva detto “non ho paura di morire, ho cinquant’anni e ho vissuto dieci vite”.
Murgia era intensamente sarda, nata a Cabras in provincia di Oristano nel 1972. Studentessa di teologia, lavoratrice in un call center (lo raccontò nel suo Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria), attivista dell’Azione Cattolica, femminista pungente e senza sconti. Tentò un’avventura politica come candidata a governatrice della sua regione (perse, purtroppo; per la sua isola amata avrebbe fatto molto). E scrittrice: con Accabadora del 2009 – narrazione delle tradizioni sarde e dell’eutanasia – vinse il premio Dessì, il Super Mondello e il Campiello. Tra i saggi più noti Ave Mary, Istruzioni per diventare fascisti, Stai zitta! E altre nove frasi che non vogliamo sentire più oltre ai volumi Morgana con le storie di donne scritte con Chiara Tagliaferri. L’ultima opera letteraria, da poco uscita: Tre ciotole, raccolta di racconti sulla vita e la malattia.
Questi i dati di fatto, ma mi è difficile, come a tanti e tante oggi che scrivono di lei, spiegare l’impatto che Michela Murgia ha avuto sulla cultura italiana, e non solo coi suoi libri, un impatto che penso riconosceremo ancora di più a distanza di tempo. Era presente, sui social e sui giornali; era l’intellettuale che serviva in questa nostra epoca, originale, spiazzante, a volte sul filo del paradosso. Diceva quello che pensava e non quello che conveniva; e pensava lucidissimamente, fuori dagli schemi, con una perentorietà e un’intelligenza tagliente che la rendevano odiosa a molti. La sua fede era personale e fuori dai canoni cattolici. Il suo femminismo inclusivo agito in collaborazione con altre donne (per scritto, in televisione) faceva anche paura; vagonate di odio social e di critiche più elevate le si sono riversate addosso nel corso degli anni, senza intimidirla.

Da maggio, dopo l’annuncio, Michela Murgia ha deciso di fare della malattia un atto politico. Prima di tutto dicendo di non riconoscersi “nel regime bellico” e nell’enfasi della ‘guerra’ al tumore: “La guerra presuppone sconfitti e vincitori, io conosco già la fine della storia ma non mi sento una perdente”. Poi, affermando che sperava “di morire quando Giorgia Meloni non sarà più presidente del Consiglio perché il suo è un governo fascista” (La premier aveva risposto “spero davvero che riesca a vedere il giorno in cui non sarò più presidente del Consiglio, come auspica, perché io punto a rimanere a fare il mio lavoro ancora per molto tempo. Forza Michela!”).
Soprattutto però, Murgia ha insistito a presentare la “famiglia queer” che le era intorno, un gruppo di amici e di “figli d’anima”, contrapponendola alla famiglia tradizionale per farne un inno di libertà di scelta; a luglio aveva sposato civilmente uno dei componenti, l’attore Lorenzo Terenzi, perché “qualcuno dovrà prendere delle decisioni” e lo Stato non garantisce diritti fuori dal matrimonio, ma ne ha fatto una cerimonia collettiva con tanti abiti da nozze (disegnati da Maria Grazia Chiuri). E poi ha parlato del male: si è fatta riprendere su Instagram mentre si rasava i capelli; ha continuato a intervenire, rivendicando il suo esserci e la sua allegria (almeno di facciata). Fra tutte le sue azioni eversive, è quella che ha dato più fastidio. La gente non vuole ricordarsi che deve morire. La lucidità di Michela Murgia – in questo come nei tanti scritti del suo femminismo inclusivo – è risultata intollerabile a molti (e c’è chi l’ha accusata di sfruttare la malattia per farsi pubblicità).

Oggi, naturalmente, si intrecciano i ricordi commossi: è il tempo del lutto. Anche io ho i miei (un’intervista che le feci per la rivista femminista Leggendaria su Stai zitta!, un incontro per caso pochi mesi fa in una sala conferenze), ma penso interessino solo a me. Domani si alzeranno le prime voci a criticare. Non importa: Michele Murgia ha vissuto e se ne è andata come voleva. Con la malattia aveva perso anche le ultime remore e il suo testamento ce lo ha lasciato: “Questo è un momento di grandissima libertà” diceva dal palco del Salone del Libro a Torino in maggio. “Mi sveglio la mattina e dico tutto, faccio tutto, tanto che mi fanno, mi licenziano? Questa libertà voglio usarla, per lasciare un’eredità. Se c’è qualcosa che non ho avuto il coraggio di dire – perché ho calcolato protezioni o conseguenze- o di fare, adesso lo faccio… Volevo vedere le sfilate ma sono sempre stata troppo comunista e pauperista, e invece ci sono andata. Volevo vestirmi da principessa alle dieci del mattino, con un abito da sera, l’ho fatto. Non ho più limiti, non me ne frega più niente. Però vi dico: non aspettate di avere un cancro per fare la stessa cosa. Perché se ragionassimo tutti nello stesso modo, probabilmente non avremmo i fascisti al governo”.