In Another End, il regista siciliano Piero Messina si avventura nei labirinti della separazione, del lutto e del doloroso processo di elaborazione della perdita. Presentato in concorso alla 74esima Berlinale e in programma il 4 giugno a Open Roads, la rassegna cinematografica al Lincoln Center, il film ci trasporta in un futuro non così remoto, dove una compagnia medica privata ha sviluppato una tecnologia rivoluzionaria: impiantare temporaneamente la coscienza dei defunti in un corpo ospite. Questo permette ai parenti e agli amici di condividere ancora una volta, seppur per poco, il tempo con i loro cari perduti e di trovare un modo per dir loro addio.
“La questione del lutto mi ha sempre affascinato”, racconta Messina. “Già nel mio primo film, L’Attesa del 2015, ho affrontato questo argomento. Dunque, quando mi sono ritrovato a lavorare su un altro progetto incentrato sulla perdita e sulla separazione, la presenza di un vuoto, mi sono chiesto il motivo per cui tornassi a toccare questo tema. Penso che questo rifletta qualcosa di personale”.
Il lutto è dunque uno strumento per esplorare altri temi?
“Per me è un punto di partenza per esplorare i legami umani in modo più intenso. È come se la mancanza o la separazione mi permettessero di vivere e raccontare i rapporti con maggiore chiarezza e intensità. Trovo più semplice parlare d’amore poco dopo una separazione perché è in quei momenti che riesco a riflettere con maggior lucidità su quanto vissuto. L’ultima scena del film è il punto di inizio: due persone che si scambiano sguardi nella luce del mattino. Quest’immagine mi ha ossessionato e mi ha spinto a scrivere una storia che culminasse in quel momento. Lentamente, ho capito che stavo scrivendo una storia d’amore con un tocco fantascientifico: la separazione tra corpo e coscienza. Questa idea ha sollevato molte domande su cosa significhi amare qualcuno. Amo il corpo, le parole, i pensieri? Questa complessità si è sviluppata gradualmente durante la scrittura”.
L’esperienza personale di diventare padre ha influenzato il film?
“Essere diventato padre mi ha fatto riflettere su un aspetto straordinariamente profondo e bello della vita: il poter amare profondamente due persone senza condividere nulla con loro da un punto di vista razionale. Non c’era un legame basato su parole o ricordi, tutto fluiva attraverso il corpo. Questo tipo di rapporto che ho con i miei figli ha svelato qualcosa di profondo che risuona in molti altri tipi di relazioni, specialmente quelle d’amore. Cosa significa davvero stare insieme? È più importante la comprensione razionale o il legame che si instaura tra le persone? È da qui che è nato il film”.
Il film esplora la dualità tra corpo e mente. A quale conclusione è giunto?
“Ho compreso che, fortunatamente, nel mondo reale, queste due dimensioni non sono separabili come nel film. Sovrastimiamo molto ciò che è virtuale e sottostimiamo l’importanza della dimensione fisica del rapporto, che non riguarda solo l’aspetto sessuale, ma tutto ciò che è sensoriale, come l’odore di una persona. Di recente, guardavo un documentario sui pinguini con i miei figli: ne ho due di 11 e 9 anni, e il più piccolo ha solo 2 anni. Il più grande sogna di diventare un documentarista di animali, quindi guardiamo spesso lungometraggi insieme. In uno di questi, abbiamo visto una scena in cui un gruppo di circa 10.000 pinguini si riuniva dopo la pesca e le madri erano in grado di riconoscere i propri piccoli dal profumo. Questo mi ha fatto riflettere sulla nostra connessione con il mondo animale e su come spesso trascuriamo questo aspetto “pinguino” della nostra stessa natura e che che rischia di essere mortificato dall’eccessiva immersione nella tecnologia e nell’interazione virtuale”.
Il film sembra esaltare in qualche modo la tecnologia, invece, in realtà, non la celebra affatto.
“Non esalto tutto ciò che distoglie il corpo dalla relazione. Quando parlo di “corpo”, non mi riferisco a un ideale estetico o teorico, ma a qualcosa di più profondo e sensibile, che riguarda l’essere umano. Posso percepire la sua presenza anche quando la mente è concentrata altrove, poiché c’è qualcosa di segreto e sotterraneo in noi che non si può sempre tradurre in parole. Questo concetto riguarda un accumulo di esperienze che si manifestano nel quotidiano”.
Fino a che punto la tecnologia sta cambiando le nostre vite?
“La tecnologia sta avendo un impatto profondo sulle nostre vite e più velocemente di quanto possiamo metabolizzare. Il problema non è tanto ciò che sta accadendo, ma la velocità con cui avviene. Ad esempio, i social network hanno trasformato le nostre vite personali e politiche e abbiamo iniziato a discuterne solo quando il cambiamento era già avvenuto. Questo sta accadendo anche con l’intelligenza artificiale e temo che la nostra capacità di regolamentare e comprendere questi cambiamenti non riesca a tenere il passo”.
Nel contesto attuale si sta discutendo molto di come le persone si sottopongano al congelamento corporeo. Questo influenzerà anche la nostra ricerca dell’immortalità?
“La ricerca dell’immortalità è sempre stata una costante nell’umanità, ora è solo mediata dalla tecnologia. La nostra aspirazione a superare la morte un tempo trovava espressione attraverso la religione o altre forme culturali, mentre ora si manifesta attraverso la tecnologia. Il problema è che la nostra società produce innovazioni rivoluzionarie senza fermarsi a riflettere su come regolamentarle o comprenderle appieno”.
Ci sono autori od opere letterarie che hanno influenzato il lavoro su Another End?
“Un libro che ha influenzato molto questo film è La vocazione teatrale di Wilhelm Meister di Goethe. Mi ha colpito particolarmente il finale, dove il protagonista ricorda un momento insignificante prima di morire, un anticlimax poetico che mi ha ispirato. Un altro riferimento è La Jetée di Chris Marker. Ci sono di certo altre influenze, ma queste sono le più evidenti”.