Conduce la squadra, allenatore, arbitro, tutto, tutto insieme. Il CEO di Cinecittà Nicola Maccanico è a New York con una delegazione di creativi italiani (De Angelis, Luchetti, Messina, Elkann, Parroni, Santambrogio, Artale) per presentare una selezione dei migliori film del nostro Paese nella rassegna Open Roads, organizzata insieme al Lincoln Center, così come ha fatto a Tokyo e in una serie di altre capitali del mondo. Figlio del noto ministro Antonio Maccanico, che gli diceva: “Non importa quale, ma trovati un mestiere”, è arrivato al cinema per caso dopo una laurea in Legge e lavori in ambito legale. Ha iniziato nell’audiovisivo con Sky, per poi passare alla Warner Brothers. A Cinecittà è arrivato tre anni fa e ora, a fine mandato, racconta a La Voce Di New York come è andata.
“Siamo molto felici di vedere qui opere realizzate a Cinecittà”. Lavorare negli studi cinematografici vuol dire conservare un religioso silenzio su quello che accade, perché le produzioni pretendono, legittimamente, di poter comunicare loro i contenuti, quando e come vogliono. Al Festival di Venezia c’erano cinque film girati a Cinecittà e questo dà il senso di quanto l’infrastruttura sia competitiva e crei concreto valore sia per produzioni italiane che per quelle grandi internazionali.

Come nei favolosi anni ’60, quando a Cinecittà si giravano megaproduzioni hollywoodiane, come Ben Hur, Cleopatra, Quo vadis mentre negli altri teatri di posa lavoravano Visconti e Fellini.
“Sì, abbiamo riportato Cinecittà ai fasti di un tempo. Per dare dei parametri economici: mediamente gli studi a Roma fatturavano tra i 12 e i 15 milioni di euro all’anno, noi negli ultimi due anni siamo arrivati a 85 e se mettiamo insieme il triennio sono 100 milioni di euro. La media dei ricavi da scenografia era sui 2 milioni, 2 milioni e mezzo. Negli ultimi due anni ne abbiamo fatti 40”.
Questo significa maggiori posti di lavoro?
“Questo intanto significa che viene a girare da te Luca Guadagnino (Queer con Daniel Craig), Joe Wright (la serie Sky M su Mussolini), Roland Emmerich (la serie sui gladiatori, Those About to Die), Angelina Jolie (Without Blood con Salma Hayek), Saverio Costanzo (Finalmente l’alba), Paola Cortellesi (C’è ancora domani). Cioè si ha accesso ai principali film-maker nazionali e internazionali. E poi tutto questo crea lavoro. Semplicemente nel reparto scenografie, tra interni e società esterne cui ci appoggiamo, hanno lavorato più di mille persone. Un’infrastruttura come Cinecittà è un attrattore di investimenti e quindi un generatore di posti di lavoro. La creatività vale, ma è fluida, vola e può atterrare in qualunque ambito. Paolo Sorrentino può girare un film dove gli pare. Avere un’infrastruttura come Cinecittà è uno stimolo a lavorare nel nostro Paese e a mantenere il valore a casa nostra”.
In passato in molti si sono rivolti a Paesi dell’Est o altri dove la mano d’opera costava meno: come siete tornati competitivi?
“Siamo competitivi intanto per il nostro credito d’imposta. Ogni Paese lo ha per l’industria audiovisiva. L’Italia, negli ultimi dieci anni, ha investito e lo ha fatto crescere e noi abbiamo valorizzato questa opportunità. Poi abbiamo infrastrutture competitive, set all’aperto ben realizzati, teatri di posa, la realtà virtuale più all’avanguardia d’Europa con uno smart stage di 400 metri quadrati di diametro. E, infine, abbiamo competenze, le nostre maestranze, scenografi, operai, abbastanza uniche nel mondo”.

Avete aumentato i teatri di posa e realizzato un nuovo smart stage?
“Abbiamo lavorato con i teatri di posa esistenti, i venti che Cinecittà ha dal 1937 che coprono 18 mila metri quadrati. Adesso ne stiamo costruendo altri cinque che aggiungeranno 12 mila metri quadrati di capacità produttiva e abbiamo un backlot, lo spazio dove costruire scenografie all’aperto, razionalizzato, di 9 ettari. Quando sarà tutto terminato, nel 2026, la dimensione del nostro hub diventerà molto rilevante e mantenere questo grado di competitività con delle politiche pubbliche a sostegno dell’attrazione degli investimenti esteri sarà decisivo: se non dovesse accadere sarebbero guai”.
È alla fine del suo mandato…
“Sono molto felice del lavoro che ho fatto, molto orgoglioso di questi tre anni e a disposizione del mio azionista, il Ministero della Cultura e dell’Economia, che prenderà le decisioni del caso. Quando fai il manager questo è il modo di porsi. Hai ricevuto un mandato, lo svolgi al meglio, e questo è importante, e quando hai finito è giusto che l’azionista decida. Credo chi decide debba avere un piano e le persone debbano essere figlie di questo. Io ho chiuso un triennio con il piano definito tre anni fa. Ho un buon rapporto con il ministro Gennaro Sangiuliano, non ho problemi con questo governo. Prima di decidere a chi affidare il mandato, è importante che loro abbiano le idee chiare su cosa vogliono fare. E le due cose verranno insieme, secondo me”.