Un regista inesistente, un film mai distribuito e 863mila euro di fondi pubblici ottenuti attraverso una richiesta formalmente in regola. Il caso di Stelle della notte, legato alla figura di Rexal Ford — alias Francis Kaufmann, arrestato in Grecia e accusato di un duplice omicidio a Roma — ha riportato l’attenzione su un punto fragile della macchina statale: il sistema di agevolazioni fiscali per il cinema.
Due piani si intrecciano. Da un lato, l’inganno surreale di un uomo che ha ottenuto denaro pubblico per un’opera mai realizzata. Dall’altro, l’esistenza di un impianto normativo che lo ha reso possibile.
Nicola Borrelli, direttore generale Cinema del Ministero della Cultura, ha spiegato che, al momento della richiesta, il ministero aveva visionato parte del materiale girato e che la documentazione presentata risultava completa. Il credito d’imposta, ha precisato, era automatico in presenza dei requisiti previsti, e la mancata distribuzione del film in Italia non rappresentava un’anomalia, trattandosi di un’opera internazionale. Secondo quanto risulta, il Ministero ha contattato il produttore per ottenere chiarimenti, ma al momento non ha ricevuto risposta.
Ma proprio qui si apre il nodo centrale. La visione del girato, in questi casi, non era obbligatoria per legge. Fino alla recente riforma, la normativa sul tax credit per le coproduzioni estere non richiedeva il deposito di materiali audiovisivi per accedere al beneficio. Bastavano una sinossi, un piano economico coerente e un partner italiano disposto a farsi carico della domanda. Le verifiche si limitavano alla correttezza formale dei documenti.
Il caso Kaufmann ha fatto leva esattamente su questa vulnerabilità: un vuoto normativo che permetteva di ottenere fondi pubblici anche in assenza di un’opera concreta. Una falla del sistema che, con il peso di un’accusa per duplice omicidio, assume oggi una dimensione ancora più inquietante. L’episodio di Stelle della notte lo dimostra chiaramente. La società italiana Coevolutions srl, guidata da Marco Perotti, ha presentato una richiesta formalmente impeccabile, e la Direzione Generale Cinema ne ha confermato la regolarità secondo i parametri previsti.
Alla base di tutto, una legge che avrebbe dovuto rafforzare il comparto. Introdotta nel 2008 e riformata nel 2016, la cosiddetta “legge Franceschini” era stata concepita per attrarre investimenti stranieri e rilanciare la produzione italiana. Nel tempo si è sviluppata attraverso una stratificazione di leggi, decreti attuativi e circolari. Questo ha generato, in più di un caso, ambiguità interpretative e applicative, con margini di discrezionalità nella gestione delle domande. I revisori dei conti, incaricati di certificare i costi delle produzioni, svolgono compiti strettamente contabili. Verificano la coerenza formale della documentazione presentata, ma non sono tenuti ad accertare se un film sia stato effettivamente girato, né a valutarne la corrispondenza con quanto dichiarato sul piano creativo o produttivo.
Intanto, a testimonianza del malessere diffuso nel settore, si è dimessa metà della Commissione FUS, l’organo consultivo del Ministero incaricato di valutare i contributi per lo spettacolo dal vivo. Il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, ha parlato di “sgomento e rabbia” per un sistema che, nel tempo, ha tollerato leggerezze e zone grigie. Ma il caso Kaufmann non ha rivelato un’anomalia nascosta: ha trasformato in cronaca nera una distorsione ben nota al settore e discussa da tempo.
Una riforma del tax credit è già stata avviata. Ma il problema, ormai, non è solo normativo. È culturale e sistemico. Perché un settore che si regge sul valore della finzione, oggi è chiamato a fare i conti con la realtà.