Convenzionalmente lo chiamavano “Codice Hays” dal suo compilatore Will H. Hays, presidente della Motion Picture Association of America dal 1922 al 1945. Di fatto un codice di auto-censura: linee guida morali che per molti anni ha condizionato e limitato la produzione del cinema negli USA. Un codice che specificava cosa fosse o non fosse considerato “moralmente accettabile”.
Non si doveva produrre film che potevano abbassare gli standard morali degli spettatori. Per questo motivo la simpatia del pubblico non doveva mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male, il peccato. Si dovevano presentare solo standard di vita corretti, con le sole limitazioni necessarie al dramma e all’intrattenimento. Ecco perché la “legge naturale, divina o umana”, non doveva mai essere messa in ridicolo, tantomeno sollecitare la simpatia dello spettatore per la sua violazione. Proibiti il nudo e le danze lascive. I ministri del culto non potevano essere rappresentati come personaggi comici o malvagi. Proibita la rappresentazione dell’uso di droghe e il consumo di alcolici, “quando non richiesto dalla trama o per un’adeguata caratterizzazione”. Le esecuzioni di delitti (incendio doloro o contrabbando, ecc.) non potevano essere presentati in modo esplicito. Le allusioni alle “perversioni sessuali” (tra cui, all’epoca, l’omosessualità) e alle malattie veneree anch’esse proibite, come la rappresentazione del parto. Bandite varie parole ed espressioni offensive. Le scene di omicidio dovevano essere girate in modo da scoraggiarne l’emulazione nella vita reale, delitti brutali non potevano essere mostrati in dettaglio.
Si doveva valorizzare la santità del matrimonio e della famiglia: “I film non dovranno concludere che le forme più basse di rapporti sessuali sono cose accettate o comuni”. L’adulterio e il sesso illegale non potevano essere espliciti o giustificati, e non dovevano essere presentati come opzione attraente. Le relazioni fra persone di razze diverse erano proibite. “Scene passionali” non dovevano essere introdotte se non necessarie per la trama: “Baci eccessivi e lussuriosi vanno evitati”, assieme a trattazioni che “potrebbero stimolare gli elementi più bassi e grossolani”. La bandiera degli Stati Uniti d’America doveva essere trattata rispettosamente, così come i popoli e la storia delle altre nazioni. La volgarità, e cioè “soggetti bassi, disgustosi, spiacevoli, sebbene non necessariamente negativi” dovevano essere trattati entro i dettami del buon gusto.
Anche questa era l’America: vietati copioni e scene potenzialmente capaci di mettere sotto una luce positiva il crimine, i comportamenti devianti e, in generale, il male o il peccato. Il successo commerciale delle produzioni inevitabilmente risentivano di queste limitazioni e censure.
A questo punto si deve parlare di Adolph L. “Whitey” Schafer. Nasce a Salt Lake City (Utah) il 16 maggio 1902. Da ragazzo, con la famiglia si trasferisce a Hollywood. Si diploma e nel 1921 si impiega nel Famous Players-Lasky Corporation, lavora nel laboratorio di ritrattistica dove elabora stampe. Due anni dopo inizia a lavorare per lo studio cinematografico di Thomas Ince come fotografo e occasionalmente anche come cameraman. In seguito collabora con Cecil B. DeMille, Pathe e RKO-Pathe, l’Universal, e nel 1932 con la Colombia Pictures Corporation; dopo la morte del fotografo William Fraker jr. è nominato capo del dipartimento di fotografia. Schafer crea ritratti glamour di stelle del cinema come Rita Hayworth, Loretta Young, Jean Arthur, William Holden. Molte delle sue foto sono caratterizzate da una semplice illuminazione che mette in risalto le caratteristiche del fascino femminile delle attrici e la virilità degli attori maschi. Le sue immagini sono semplici, eleganti, definiscono al meglio la personalità dei divi dell’epoca.
La Paramount lo chiama come capo direttore della fotografia. In quegli anni è l’autore della maggior parte dei ritratti di Veronica Lake, e lavora con molti divi all’inizio della loro carriera, come Elizabeth Taylor e Montgomery Clift. Ormai è un autore affermato, dirige le gallerie di ritratti di due diverse case di produzione cinematografica, vince premi, è uno dei migliori direttori della fotografia degli anni ’30 e ’40.
Per lo spettacolo inaugurale dell’Hollywood Studios ‘Still Show nel 1941, creato dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences per premiare le opere di fotografia cinematografica e promuovere i film al grande pubblico, Schafer crea una fotografia contro tendenza per smuovere satiricamente il Codice Hays e gli standard di censura del Motion Picture Producers and Distributors Assn.

La sua immagine satirica, intitolata Thou Shalt Not, mostra il top faux-pas vietato dai censori dell’industria che deve approvare ogni immagine fotografica scattata dagli studios prima di essere distribuita. In un solo scatto Schafer “comprime” dieci dei “vizi” definiti dal codice Hays, elencandoli nella “Tavola della Legge”: la sconfitta della polizia, l’interno di una coscia, l’intimo di pizzo, il cadavere in primo piano, la droga (uno spinello), il consumo d’alcol, un petto parzialmente esposto, il gioco d’azzardo, un’arma puntata e una mitraglietta.
Schafer iscrive l’immagine a una mostra di lavori dei fotografi «ufficiali» degli studios. La giuria non solo la respinge ma minaccia di punirlo con una multa di duemila dollari; al che Schafer ribatte facendo notare che gli stessi giurati hanno fatto incetta, portandosele a casa per “esaminarle”, di tutte le diciotto copie della stampa presentate. Manca dunque il “corpo del reato” e non se ne fa più nulla, anche se la foto rimane al bando per molti anni, diventando tuttavia oggetto “clandestino” di diffusione popolare tra gli studios.
L’assurda censura contribuisce ad accrescere il successo professionale di Schafer che diventa direttore della fotografia nelle più importanti case di produzione cinematografiche di Hollywood.
Per la cronaca: a fine agosto 1951 mentre è in vacanza in casa di amici, tenta di aiutare il proprietario di uno yacht ad accendere una stufa, che improvvisamente esplode. Adolph L. “Whitey” Schafer muore in seguito alle ferite riportate nell’esplosione. Aveva solo 49 anni.