È in pieno corso, presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, dal 30 giugno sino al 10 ottobre 2021, la mostra Réflections. Dino Gavina, l’arte e il design. Una riflessione del visitatore nell’enigmatico gioco di specchi fra le opere e gli spazi espositivi, ma anche una speculazione sulla figura di Dino Gavina, imprenditore “sovversivo” – come amava definirsi –nell’Italia della seconda metà del ‘900. La mostra, curata dalla storica dell’arte Giovanna Coltelli su progetto allestitivo dell’architetto Marco Brunori, evidenzia la relazione tra arte e produzione industriale che, nel pensiero di Dino Gavina, possono e devono camminare insieme per cambiare il mondo. Alla luce di questa intuizione, il percorso espositivo accosta oggetti di design vintage e contemporanei a capolavori realizzati da artisti e designer con cui Gavina ha intrecciato relazioni umane e professionali. E’ presente inoltre – all’interno di un museo sempre molto sensibile al genio femminile – un omaggio significativo alle artiste che hanno avuto con Gavina legami familiari, amicali e lavorativi, a partire da sua moglie, l’artista verbo-visuale Greta Schödl.
“L’idea alla base del percorso espositivo dedicato a Dino Gavina – spiega a La Voce di New York la curatrice della mostra Giovanna Coltelli – è dimostrare l’importanza che ha avuto questo singolare personaggio in rapporto all’arte contemporanea. Evidenziare la sua capacità di mettere in relazione i linguaggi dell’arte con le esigenze della produzione industriale, perché gli oggetti che affollano l’ambiente domestico e gli spazi pubblici possano comunicare la bellezza attraverso la poesia delle forme, con rigore, ma anche con ironia e fantasia. Dino Gavina considerava l’arte, in tutte le sue manifestazioni, un nutrimento imprescindibile per la perfetta realizzazione degli oggetti di design che andava producendo nei suoi stabilimenti”.

Dino Gavina è considerato il precursore dell’art design. Qual è, nella sua opera, la discriminante tra oggetto di design e opera d’arte?
“Non parlerei di discriminante, ma al contrario di accomunante. Molta della sua produzione è progettata apertamente da o insieme ad artisti. Cito solo alcuni esempi che si possono ammirare in mostra: il salotto-scultura Malitte e tre fantastiche poltrone Magritta, Margarita e Sacco Alato – della serie “Ultramobile”- firmate da Sebastian Matta; Enzo Mari con l’esemplare Sedia progettata nell’ambito di “Autoprogettazione-Metamobile”; gli specchi les Grands trans-Parents e il divano Le Temoin di Man Ray, le lampade Garbo di Mariyo Yagi, il tappeto Lorenz e il pouf Ron-Ron di Marion Baruch insieme al tavolo Taccia di Meret Oppenheim e le sedute Fausto e Altabella disegnate da Novello Finotti e Alan Irvine. Per non parlare degli artefatti progettati come omaggi ad importanti artisti amati da Gavina: il tavolo Costantin che prende origine dalla Colonna Infinita di Brancusi, i paraventi ispirati a Masson, Pollock e Balla. Di quest’ultimo sono esposti anche due Fiori Futuristi, realizzati in acciaio dalla “Simon-Gavina”.

Gavina si definiva un imprenditore illuminato e sovversivo. Quali canoni artistici intendeva sovvertire? E in favore di quali altri?
“Illuminato lo definiamo noi, sovversivo era scritto sotto il nome nel suo biglietto da visita. Non era incasellabile, non era prevedibile: era un innovatore. Non contestava né seguiva canoni o mode. Si accostava piuttosto, seguendo il suo innegabile fiuto di cercatore di uomini, a chi o cosa lo incuriosiva, come avvenne con Duchamp e i suoi Ready Made, per la prima volta esposti a Roma per sua volontànel 1965, negli uffici della “Gavina SpA”. Possiamo vedere nella mostra, oggi, i disegni originali di quell’allestimento progettato da Carlo Scarpa”.

Pensa che Gavina sia riuscito a operare una rivoluzione nel mondo del design contemporaneo?
“Sì, nel senso che ha indicato una strada ad un mondo, quello del design, che era ancora fragile. I designer italiani degli anni Cinquanta non avevano una identità così riconosciuta, come invece avverrà in seguito, proprio a partire da quelli che progettavano per/con lui”.

Nella mostra si esplorano anche le relazioni umane e le collaborazioni artistiche che Gavina intesseva con alcuni fra i più grandi artisti italiani della seconda metà del Novecento. Quali sono le personalità che più hanno influenzato il suo stile?
“Il più importante artista italiano, tra i molti ammirati e frequentati, con cui Gavina è rimasto in relazione tutta la vita è stato sicuramente Lucio Fontana. Fu lui a presentargli i “bravi architetti milanesi” con lui andava a visitare musei e gallerie; con lui ha organizzato esposizioni nei suoi negozi e sperimentazioni nei suoi stabilimenti. Ma di fondamentale importanza, seppur fuori confine, furono anche i legami profondi con Marcel Duchamp e Man Ray”.

La mostra presenta anche una selezione di opere cinetiche delle collezioni della Galleria Nazionale in cui figurano molti artisti che fecero parte del Centro Duchamp, che Gavina fondò nel 1967. Quali sono le principali innovazioni del linguaggio artistico prodotte in questa factory?
“Sono gli stessi autori che Gavina aveva esposto nel 1967 in una mostra itinerante nei suoi negozi, intitolata “La Luce” che, insieme alla più conosciuta “Lo spazio dell’immagine” di Foligno (dove gli artisti poterono sperimentare nuove forme e materiali delle opere esposte nello stabilimento della Gavina SpA), tanto hanno significato per l’arte contemporanea italiana. Molti di questi artisti figurano anche negli elenchi del memorabile “Centro Duchamp”, un vero e proprio Laboratorio che Gavina aveva fondato nel 1967 e ufficializzato nel 1969, con sede nel suo stabilimento di San Lazzaro, dove artisti ingegneri letterati scienziati poeti architetti musicisti e tecnici ebbero la possibilità di sperimentare nuovi materiali e nuovi linguaggi espressivi, supportati dal suo mecenatismo e dalla sua intelligenza progettuale. Ecco quindi in mostra opere di Getullio Alviani, Marina Apollonio, Alberto Biasi, Davide Boriani, Martha Boto, Ennio Chiggio, Gianni Colombo, Hugo Demarco, Gabriele De Vecchi, Angel Duarte, Edoardo Landi, Julio Le Parc, Elio Marchegiani, Gino Marotta, Manfredo Massironi e Grazia Varisco”.

Qual è invece l’impronta di Gavina nel mondo del design industriale moderno? Arte e produzione industriale sono riuscite a camminare insieme “per cambiare il mondo”?
“Molti dei pezzi da lui tenuti a battesimo sono ancora in produzione, e quindi ci hanno accompagnati per un bel pezzo di strada, a riprova del loro valore. D’altronde i nomi più noti che disegnarono per lui sono Marcel Breuer, Carlo e Tobia Scarpa, Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Kazuhide Takahama, Luigi Caccia Dominioni, Ignazio Gardella oltre ai molti giovani architetti del suo studio e ai grandi artisti che abbiamo citato sopra”.

La mostra non manca di onorare le artiste con le quali Gavina ha collaborato. Chi sono e come sono rappresentate?
“Un focus è dedicato alle donne artiste che hanno avuto con Dino un legame familiare, amicale e/o lavorativo. Partiamo da sua moglie, l’artista verbo-visuale Greta Schödl, dalle artiste cinetiche del Centro Duchamp come Grazia Varisco, Marina Apollonio e Martha Boto, passando dall’amica Marina Abramović per finire con quelle coinvolte direttamente nella produzione degli oggetti d’arredo, come Meret Oppenheim, Marion Baruch e Mariyo Yagi. I loro originalissimi artefatti ci fanno rivivere atmosfere di prorompente modernità sia per le forme che per i materiali utilizzati”.

In che modo il pubblico è chiamato a compartecipare all’esperienza della riflessione?
“La riflessione, nel suo doppio senso letterale, è richiamata all’inizio dell’esposizione dal grande ritratto di Dino Gavina, allestito in angolo e composto da mezza faccia fotografata in primo piano che si completa nell’altra metà costituita da una pellicola specchiante. A seconda dell’angolazione in cui ci si pone, il volto di Gavina appare più o meno definito costringendo il visitatore a riflettere su quale sia il punto migliore per la visione. Il richiamo alla riflessione si fa diretto negli specchi esposti nelle sale, dove necessariamente insieme alle opere allestite entra anche il visitatore. Ma riflettono la nostra immagine anche le superfici dei materiali specchianti di cui sono costituite alcune opere o parti di esse per finire con le ombre dei nostri corpi che entrano nelle opere, rimandate dalle luci. Insomma, ad ogni nostro passo gli intrecci relazionali si modificano e noi siamo costretti a prenderne atto”.