
Nella carriera di un giornalista, può capitare che si abbia la fortuna di intervistare qualcuno che, oltre ad essere un personaggio noto e dallo straordinario talento, sia soprattutto una conoscenza che appartiene alla sfera degli affetti personali. Franco Fontana per me è proprio questo: non solo uno dei protagonisti della Fotografia italiana ed internazionale del secondo dopoguerra, riconosciuto in tutto il mondo come re del Colore fotografico, ma nella mia vita (come anche in quella di molti altri aspiranti creativi che lo hanno potuto conoscere e frequentare) è Maestro profondamente amato, al pari di un padre putativo.
La vita, amico, è l’arte dell’incontro ci suggerisce Vinicius de Moraes. Con Franco Fontana, posso dire di aver scoperto – proprio grazie all’incontro con lui e ad un suo corso fotografico a cui partecipai anni fa – molto di me e della mia identità, che mi ha portato poi anche ad esprimermi nel giornalismo e non solo nel mondo dell’immagine creativa, che tuttora frequento appena mi è possibile.
Lo incontro a Modena, sua città natale, per abbracciare dal vivo lui e sua moglie Uti, dopo tanto tempo che non ci vediamo a causa della pandemia che ha cambiato tanto delle nostre esistenze. Franco ha ricevuto da poco il Premio Hemingway 2021 per la Fotografia, nell’ambito della 37^ edizione del Premio dedicato ad Ernest Hemingway che ha celebrato, ancora una volta, la straordinaria capacità del grande autore americano di guardare nel profondo dell’animo umano.

Il riconoscimento è andato a Fontana per aver assemblato, nel fotolibro America, edito da Contrejour di Parigi, una sequenza di immagini sul paesaggio sociologico americano, da lui esplorato in decenni di frequenza e di viaggi nel territorio. Il volume – è stato decretato – si offre come suggestivo e autorevole, accorato romanzo visivo sul territorio americano ed è culturalmente memore di una specifica iconografia che si è avventurata, dal Novecento a oggi, anche nell’opera di pittori come Hopper, Shahn, Warhol, e di poeti e romanzieri come Agee e Kerouac, che qui iconicamente riemergono nelle sintetiche, metaforiche fotografie dal profilo metafisico, di Franco Fontana. Lo scorso 25 giugno, insieme a lui, sono stati premiati anche la scrittrice Dacia Maraini per la Letteratura, lo scienziato Stefano Mancuso per l’Avventura del pensiero e il regista Carlo Verdone nella sezione Testimone del nostro tempo.E’ una domenica mattina quando iniziamo a fare questa intervista. Il giorno prima ho visitato la splendida retrospettiva presso la galleria Mazzoli di Modena, che resterà aperta fino al prossimo 11 settembre e che consiglio vivamente di ammirare: circa 70 sue opere, per lo più inedite, realizzate dal 1961 al 2017. Per amore di cronaca, Franco Fontana ha attualmente una seconda retrospettiva in corso anche all’estero: esattamente, Language of Colour alla Galleria Atlas di Londra.
Alcuni dati reperiti in rete segnalano che tu cominci a fotografare nel 1961, a 28 anni. E che hai iniziato con i Fotoclub amatoriali. Cosa ti è rimasto di quel periodo?
“Ho cominciato a fotografare in realtà un po’ prima: nel 1958/1959, ed ho iniziato senza avere coscienza di nulla, al pari di un bambino quando nasce ed è curioso di tutto. Non avevo una identità di quello che stavo facendo. Cosa è rimasto? Direi curiosità, entusiasmo….una vitalità inespressa, che mi hanno aiutato poi a continuare e a far diventare vera identità quello che era iniziato senza consapevolezza, come acqua di sorgente”.

In un periodo in cui l’astrattismo era da ricercarsi esclusivamente nel bianco e nero, i tuoi passi nella Fotografia si sono orientati subito verso il colore. Cosa ha rappresentato il Colore nella tua vita? E la Fotografia, per la tua esistenza, in poche parole come la definiresti?
“La Fotografia, come il colore, per me rappresentano la vita; i significati di quello che vivo. Interpretare il colore è molto più difficile, sai, rispetto al bianco e nero. La realtà non si accetta così com’è, ma si ha bisogno di riviverla e significarla con un’anima diversa e sconosciuta: l’arte identifica infatti quello che non vediamo. Il bianco e nero sappiamo che è inventato: noi non osserviamo la realtà in bianco e nero. Esiste nella dualità del bianco e nero, pertanto, un vantaggio espressivo, una curiosità iniziale in più. Il colore invece è quello che vedi, e allora lo devi interpretare affinché non rimanga un oggetto, ma diventi soggetto. Il colore, intendo, deve essere visto non come dato oggettivo bensì come elemento soggettivo. In pratica, io significo il colore come fosse una identità. E per me di conseguenza rappresenta la gioia di vivere: se togli il colore dalla vita, togli tutto”.
Le tue prime esposizioni personali risalgono alla metà degli Anni 60 a Torino (Società fotografica Subalpina) e nel 1968 a Modena (Galleria della Sala di Cultura).

“L’esposizione alla Società fotografica Subalpina è la mia prima in assoluto. Stai ricordando i miei inizi, dove ho mostrato foto senza nessun significato continuativo. A Modena in esposizione – di immagini che sarebbero state importanti nella mia carriera – ce n’erano solo un paio, tra cui quella della macchina rossa a Praga, ma il resto non possedevano ancora la mia identità di fotografo”.
Hai esposto in tutto il mondo; centinaia e centinaia di mostre che hanno portato le tue opere ovunque, in oltre 60 anni di carriera; le tue fotografie sono opere d’arte conservate in oltre cinquanta musei nel globo: Rochester, San Francisco, Colonia, Parigi, Londra, Amsterdam, Zurigo, Helsinki, Mosca, San Paolo, Gerusalemme, Tokyo, Pechino, Melbourne, Sidney…. pochi come te sono riusciti a sfondare i mercati esteri nel collezionismo fotografico. Come definiresti il talento e la creatività, Maestro? Ed il TUO, di talento… sei consapevole davvero dei risultati grandiosi che hai raggiunto nella vita?
“Nella mia vita ho esposto in più di 400 mostre in tutto il mondo. Il talento e la creatività cosa sono? Direi che la creatività è talento, e deve significarsi attraverso uno stile riconoscibile. E lo stile è esso stesso identità, ed è arte. Il talento lo si riesce ad esprimere quando si arriva a maturare la coscienza della propria, di identità, perché è solo l’identità che ti significa. Pensiamo al mio paesaggio: perché possiede una identità ben precisa? Perché coloro che mi dicono: Abbiamo visto andando in giro i tuoi paesaggi, in realtà li vedevano anche prima, ma i miei paesaggi glieli ho mostrati io attraverso la mia soggettiva interpretazione. Prima, pertanto, vedevano un paesaggio oggettivo, e poi hanno visto il paesaggio soggettivo di Fontana, perché sono io fotografo che ho dato una identità a quella realtà. Personalmente, mi ritengo soddisfatto di aver raggiunto quello che sono. Io oggi vado a trovare, e non più a cercare. Ho maturato, insomma, quello che sono. Quando faccio una fotografia so quello che faccio, in maniera consapevole”.

Che ricordo hai dell’America? Che cosa ha significato l’incontro con la luce americana, nella tua carriera? E vorrei accennare al tuo lavoro sulla Route 66.
“L’America è stata il sogno americano; già a 14-15 anni mettevo via i soldi con l’idea di fare un viaggio in terra d’America. Vedevo i film e là mi sembrava esserci un ideale irraggiungibile. Nel 1979 ci sono andato per la prima volta, lavorando al mio Paesaggio urbano. L’ho trovato là, in America. Ho trovato quella luce, quei colori, quelle geometrie particolari che mi hanno permesso di andare avanti nella mia ricerca, e li ho identificati. Ho scattato tantissimo, in America. La Fotografia è del resto per me sempre stata un pretesto per esprimermi. La Fotografia sei tu. Quando ti danno una committenza, la realizzi attraverso quello che sei. La Fotografia è il fotografo, e niente altro. Il lavoro sulla Route 66 è stata una commissione professionale; era il 2001. L’unico libro solamente fotografico esistente sulla Route 66 l’ho fatto io”.

Hai collaborato, tra le tante realtà editoriali estere, con Time-Life, Vogue USA, New York Times. Perché non sei mai andato a vivere stabilmente in America?
“Nella mia vita ho fatto quello che volevo. Avrei potuto scegliere di andare a vivere in America, è vero… ma poi alla fine il mondo è dove sei tu. Non importa dove, basta che stai bene. Ho viaggiato ovunque, ma le mie personali radici rimangono a Modena. Le radici sono quelle che danno frutto se alimentate. Modena è dove sono sempre tornato, e dove vivo ancora oggi”.

Hai tenuto workshop e conferenze all’estero (Guggenheim Museum, New York; Institute of Technology, Tokyo; Accademia di Bruxelles; Università di Toronto; Parigi; Arles; Rockport; Barcellona; Taipei) oltre che nel nostro Paese; hai collaborato con il Centro Georges Pompidou così come con i Ministeri della Cultura di Francia e Giappone. L’internazionalizzazione della tua Fotografia nasconde un messaggio universale: lo proviamo a spiegare?
“Le mie fotografie sono foto di pensiero, ed il pensiero non ha confini. Le fotografie creative rappresentano l’esistenza, come la Poesia o la Musica. Ad esempio, una mia celebre fotografia fatta a Baia delle Zagare, nel Gargano, è stata scelta per rappresentare il pensiero francese nelle loro Ambasciate. Fotografi quello che pensi, non quello che vedi”.

Tra i tuoi numerosi riconoscimenti e premi nell’arco di una vita, vanti anche l’onorificenza di Commendatore per meriti artistici della Repubblica, e ti è stata assegnata un po’ di anni fa anche una Laurea Magistrale ad Honorem in Design eco compatibile dal Consiglio della Facoltà di architettura del Politecnico di Torino. Hai fatto nella vita il lavoro che desideravi, hai viaggiato il mondo, hai vissuto come hai deciso che avresti voluto vivere: una vita invidiabile, dall’esterno. Sono state davvero tutte rose e fiori? Quali le tue difficoltà superate? E cosa ti manca da raggiungere ancora?
“Difficoltà grandi non ne ho avute: intendo dire che non ho attraversato malattie o incontrato grandi ostacoli da superare. Ho sempre fatto quello che desideravo fare, e questo è importante. Pensavo e desideravo una cosa e andando avanti con costanza la ottenevo andandogli incontro. Insieme ai rischi che ogni volta mi sono preso. La vita del resto la considero un rischio: l’unica cosa certa è la morte. Rischio vuol dire vivere la vita dal vero. E’ chiaro che ho perso anche delle occasioni, nel mio percorso, e se prima di agire avessi pensato sarebbe stato meglio. Ti faccio l’esempio di quando feci vedere il mio lavoro a New York nel 1979, quando sono andato in America la prima volta. Mi recai da Leo Castelli, il famoso gallerista italiano naturalizzato statunitense (uno dei più grandi al mondo), che ha tra l’altro portato la pop art in Italia. Sono andato alla sua galleria nella Big Apple con il mio pacchetto di foto. C’erano altre persone. Immagina questa scena: entro, le mie foto le consegno all’entrata, ed attendo; dopo un quarto d’ora mi vengono a dire di accomodarmi per un colloquio, facendomi saltare la fila. Castelli non era presente; c’era la moglie. Era lei che si occupava delle mostre. Su un tavolo ecco tutte le mie foto sparse. Mi dice che il lavoro è bellissimo e che interessa molto. Ci sono però due anni di attesa per poter avere la possibilità di esporre; al che, io ringrazio e dico che ci devo pensare. Me ne vado: non voglio attendere, riprendo le mie foto e perdo quel treno. E’ l’unico rimpianto che ho, anche se alla fine la carriera mi è andata bene lo stesso; sarebbe però stata sicuramente meno dispersiva. Se avessi accettato, Castelli avrebbe potuto direttamente lanciarmi nel mercato internazionale già con un debutto straordinario. Cosa ancora manca, mi chiedi? La vita è un bel percorso e poi finisce tutto: nulla dura in eterno. Manca arrivare alla chiusura: la mia eredità artistica, la mia testimonianza. Una testimonianza che sia però concreta al cento per cento di quello che ho fatto. Non duecento libri per capire chi è Franco Fontana, ma una conclusione definitiva e determinante attraverso un unico volume e una mostra unica. E’ in progetto. Vediamo se riusciremo. Sarebbe la mia Bibbia”.

Di rimpianto ne hai solo uno. Di rimorsi?
“Nessuno, non ne ho”.
Ami i tuoi alunni, che saranno le nuove generazioni di fotografia. Quanto ha sempre contato per te insegnare agli altri il tuo modo di vivere e di fotografare?
“Ognuno sceglie il proprio modo di vivere, sia chiaro; il mio corso di fotografia, sicuramente, non è però un percorso che insegna diaframmi, scelta di obiettivi o tecniche fotografiche. Insegna a capire chi si è. E’ un corso sull’identità: non si può diventare senza prima essere. Il mio corso serve a comprendere, pertanto, quale sia la propria identità per poi esprimerla. Quello che conta non è mai infatti quello che fai, ma come lo fai.”

Dove sta andando la Fotografia, secondo te?
“Chi lo sa. Finiremo forse a fotografare chiudendo gli occhi; avremo impianti tecnologici che ci faranno fotografare con un battito di ciglia. Può essere. Chi è nato all’inizio del 1900, come mio padre, ha visto andare l’Uomo sulla Luna. Oggi prendiamo l’aereoplano per Parigi o New York, ma nel 1500 questo non era possibile. La vita secoli addietro era molto più lenta. Basta però anche andare indietro di soli 100 anni per constatare che la tecnologia ha avuto sviluppi spaventosi. La stessa Fotografia oggi è una cosa, ma appena 30 anni fa era tutt’altra cosa. Non lo sappiamo affatto dove stiamo andando. Magari in futuro ci metteranno dentro una cassetta, spingeranno un bottone e dopo un quarto d’ora tutti in America (n.d.r.: una risata gioiosa di Franco risuona nell’aria)”.
Cosa ti piacerebbe che si dicesse tra 100 anni di Franco Fontana e della sua Fotografia?
“Che riesce ancora ad essere viva, ad incuriosire ed emozionare: una buona traccia che continua a vivere”.
Tra i fotografi che ami, ne esiste qualcuno che secondo te può essere considerato geniale?
“Indubbiamente André Kertész; il numero uno, per me. Ha fatto in anticipo quello che hanno fatto tutti gli altri dopo”.

Quelli di Franco Fontana: chi sono?
“Tu sei una di Quelli di Franco Fontana (n.d.r.: il Maestro pronuncia la frase mentre guarda e sorride). Quelli va inteso tra virgolette, chiariamo. Hanno tutti la loro fotografia e non fanno ciò che io chiamo fontanate, andando in giro come rappresentanti di Franco Fontana. Si rappresentano loro stessi per quello che effettivamente sono. Ognuno di loro fa le proprie fotografie, che non hanno niente a che fare con le mie”.
La domanda che nessun giornalista ti ha mai fatto e che invece avresti voluto che ti facesse.
“Non saprei. Inventala tu”.

Ci provo: quale è stato il giorno più importante della tua vita?
“Il giorno più importante della mia vita è stato quando ho deciso di lasciare tutto per dedicarmi totalmente alla Fotografia ed iniziare un nuovo percorso professionale, ma anche di vita privata. Se nella propria esistenza un uomo riesce a fare il mestiere che ama, la vita non la vive con frustrazione, ma con gioia. Io avevo una attività, con sette dipendenti. Uti era una di loro: faceva la disegnatrice. Guadagnavo bene: era una attività avviata; vendevo mobili firmati, di architettura. Avevo anche la soddisfazione di vendere pezzi di cultura, non articoli qualsiasi. Era il 31 marzo 1976: con un socio, abbiamo discusso perché io non volevo allargarmi aprendo sedi in altre città. Mi interessava infatti solo fotografare. In pochi minuti, abbiamo deciso quanto poteva valere l’attività; mi è stata poi data la mia parte ed io ho cambiato strada. Erano le ore 11.00 del mattino, e quel giorno ho scelto. Ho scelto la Fotografia. Quell’anno mi sono separato anche dalla prima moglie. La mia vita è cominciata davvero a 40 anni, e mi sono preso i miei rischi, optando per un lavoro artistico e assolutamente non sicuro. Anche a livello privato, se fosse andata male con Uti, mi dicevo che avrei guardato avanti. Non sarei certo tornato indietro”.
Sei felice?
“Ho quasi 88 anni; la mia vita è stata molto particolare. Ero la pecora nera della mia famiglia, dove erano tutti laureati; a 14 anni, invece, io andavo a lavorare alle 7.00 e facevo il fattorino perché non avevo voglia di studiare e non andavo a scuola; titolo di studio: quinta elementare, anche se poi la cultura in realtà me la sono fatta da autodidatta negli anni. Pensa che avevo letto tutti i classici letterari già a 17 anni. Ho due lauree Honoris causae che mi sono state date per ciò che ho realizzato. Sono laureee importanti che non ho preso a scuola, ma le ho ricevute dalla vita. Sì, sono felice. Tutte la mattine mi alzo contento, apro le finestre, faccio il segno della croce e dico Grazie”.