Arriva l’estate ed è sempre Marina di Pisa a sorprendermi: il porto al tramonto, i suoi colori, la struttura minimale, le sue poltrone bianche, gli alberi delle barche sullo sfondo, un contesto caratteristico a rappresentare uno di quei luoghi silenziosi e accoglienti, di quelli che non tradiscono e che, proprio giovedì scorso, all’interno dell’ Etoile Restaurant, locale dell’ex calciatore Alessandro Birindelli, ha fatto da cornice al primo di una serie di incontri, ospitando due personaggi famosissimi nel mondo del calcio: Aldo Dolcetti e Gigi Buffon. Il tema dell’incontro però, questa volta non è stato il calcio, bensì l’arte: “Invasione di Campo” è il tentativo di far conciliare due mondi lontanissimi che forse, poi così lontani non sono. Del resto, come scrisse G.B. Shaw “Il calcio è l’arte di comprimere la storia universale in 90 minuti”, un’affermazione alla quale probabilmente non ha mai dato troppo peso nessuno, ma che, di certo, invita a riflettere visto che spesso, il calcio viene ridotto a quello sport che muove milioni di persone, genera altrettanto milioni di euro, peraltro distribuendoli tra i più fortunati, da origine a ingiustizie sociali, eccetera eccetera, e niente di più. Probabilmente, essendo uno sport che hanno praticato tutti, o quasi tutti, chiunque si sente nelle condizioni di potersi esprimere a riguardo. Resta certamente il gioco più seguito, più conosciuto e universale che esista.
Ma come nasce l’idea di questo incontro? Nasce perché Matteo Graniti, Chief Curator presso il Museo Lu. C.C.A. – Lucca Center of Contemporary Art – è amico di Aldo Dolcetti, che oltre al buon piede sinistro, ha da sempre anche una bella mano destra dedita al disegno, passione che lo stesso calciatore non ha mai abbandonato e che, l’altro suo amico, nonché critico d’arte di fama internazionale, Luca Beatrice, gli ha suggerito di riscoprire e praticare. Così, tra la finale di Champions League giocata a Berlino, passando per altre partite decisive a Napoli e Bergamo, Dolcetti inizia a produrre la collezione “Camere d’albergo”, disegni della sua vita ai margini del calcio, nei quali troviamo la visione delle stanze, prima anonime e poi sempre più familiari, in cui vive le lunghe ore che precedono le varie partite e che, inevitabilmente, seguono al ritorno dalle stesse; raffigurando le “attese” che hanno saputo accogliere silenziosamente quel sé stesso più profondo, quel suo mondo più sconosciuto, nello sconforto di una sconfitta come nella gioia di una vittoria.
E c’è un’espressione importante che Dolcetti ha citato ieri pomeriggio, un’espressione che non tutti, forse, coglieranno fino in fondo: “Quelle camere d’albergo che io ho rappresentato, in realtà sono dei veri e propri autoritratti”. Perché qualcuno si chiederà come fanno ad essere degli autoritratti lavori che raffigurano mere stanze d’albergo? La risposta è proprio uno dei punti fermi dell’arte: ovvero che tutto può essere un autoritratto perché, alla fine, anche una linea, può rappresentare un pezzo di mondo, il pezzo di mondo che vive l’autore, un pezzo della sua vita, non del fatto che accade, ma della esperienza che egli vive, vale a dire quel vissuto che lo distingue e che lo identifica. Secondo questa linea – logica non grafica – qualsiasi segno può definirsi “autoritratto”, purché nasca e resti autentico e, dunque, artistico. Tutto il resto, ciò che viene dopo, altro non è che l’evoluzione di quel segno, ma il suo valore lo ha già, ed è racchiuso proprio nel gesto iniziale, quello immediato, istintivo, puro. Anche il curatore Graniti, infatti, nonché relatore dell’evento, alla domanda rivolta a Dolcetti relativa al suo modo di lavorare, l’artista-calciatore gli ha risposto che l’opera nasce da un’intuizione, un istinto che poi, una volta definito in qualche modo nel suo insieme grafico, può diramare in costrutti più o meno ragionati e che, inevitabilmente, si rifletteranno nell’opera, sempre rappresentativa della sua esperienza. Del resto, Dolcetti è un autodidatta e, forse, un percorso accademico gli è mancato. Ma nonostante questa lacuna, sa cogliere la libertà che l’assenza di regole e condizionamenti tecnici gli concede, sebbene sia sempre alla ricerca di un maggiore coraggio per realizzare e fare l’arte che vorrebbe, ma che proprio quella mancanza gli determina.
Continua Dolcetti: “Anche l’allenamento dei giovani, quando e se è diretto a tirare fuori il meglio che ogni ragazzo ha, non solo in senso tecnico ma anche personale, equivale a creare un’opera d’arte, perché quella occasione – il momento formativo – è allo stesso tempo un’opportunità per far emergere ogni qualità, ogni attitudine di una persona: individuare prima e, valorizzare dopo certe capacità, vuol dire creare qualcosa di bello e di unico, esattamente come accade nell’arte, quando dopo il gesto istintivo si rifinisce l’opera. Del resto, si sa che nel calcio, la creatività, l’intuizione, la visione – da superare per andare oltre il contingente – sono fattori che distinguono i talenti. E sono le stesse caratteristiche che appartengono anche agli artisti. Lo stesso Gigi Buffon, proprio come un artista, ha sempre avuto e ha, la capacità di osservare attentamente quello che accade, con quella lucidità che gli fa mantenere la visione nel suo insieme, della squadra e della partita, con le sue intuizioni e il suo coraggio. E dopo ogni caduta si è sempre rialzato, conservando ogni volta uno sguardo positivo”.
Gigi Buffon è attento e partecipa intensamente all’incontro. Si presenta con semplicità, attraverso i suoi racconti di esperienza calcistica ma anche personale, con la sua visione della vita che gli ha dato tanto e alla quale ha spesso ceduto ciò che avrebbe potuto trattenere, nel rispetto di valori e principi trasmessigli dalla sua famiglia: “Ricordati di non volere sempre tutto per te; dai qualcosa anche agli altri”. E questo insegnamento Buffon lo ricorda sempre, lo ha messo in atto durante tutta la sua carriera, sin dagli esordi, riconoscendo che quei valori erano giusti e veri, e che esiste un do ut des che la vita non tradisce e al quale egli crede profondamente. Compreso il calore dei tifosi, che lo hanno sostenuto sempre e rispetto ai quali è molto grato.
Graniti gli chiede cosa sia il talento, domanda alla quale Buffon risponde veloce, sicuro, di chi ha già affrontato l’argomento. “Il talento semplifica la riuscita del gesto, permettendo di compiere facilmente una certa azione”.
Dunque, potremmo accostare la semplificazione del gesto, a un concetto affine al mondo dell’arte, ovvero quello della sintesi. Elementi in forte assonanza e che costituiscono una delle caratteristiche fondamentali dei talenti in entrambi i campi.
Ma c’è un altro aspetto che è comune al calcio, perché questo sport è davvero una metafora della vita. Ogni azione, ogni rigore parato, tirato o sbagliato, ogni caduta, successo, ingiustizia, tutto ciò che è previsto e imprevisto nel calcio, può spiegare perfettamente quello che accade durante l’esistenza. Ogni azione calcistica degna, spesso è una metafora della vita ed, esattamente come nell’arte, è la metafora che tende a rappresentare, in modo personale e simbolico – più o meno conscio – il proprio vissuto che, quanto più è riconoscibile dagli altri (quanto più appartiene anche a chi la osserva) tanto più è universale. Pertanto, il calcio, il suo gioco, diventa spesso la raffigurazione sportiva – ancora come metafora – di ciò che accade nella vita di ognuno di noi, con le vicissitudini, il modo in cui vengono vissute, affrontate, gestite. Subendo o decidendo di reagire alle paure, condividendo le gioie; lasciandoci sopraffare dall’ansia o dominandola; conservando o perdendo la lucidità nelle situazioni più critiche, talvolta giocandoci l’occasione che aspettavamo da tanto; rianimandoci, se improvvisamente si risolve una situazione difficile, esattamente come accade in una partita che si da per finita, mentre negli ultimi minuti si ribalta il risultato. Così è il calcio, non lo sport, solo il calcio, perché le sue dinamiche sono correlate a undici e più giocatori, un piccolo spaccato di vita sociale, con i suoi ruoli e le sue pseudo-gerarchie. Per questo anche il suo gioco con le sue regole è di per sé una metafora. Allo stesso modo, seppur a livello più aulico e vibrando su altre sensibilità e livelli di coscienza, l’arte supera il mero accadimento e ne trattiene l’esperienza, il vissuto, la verità. Talvolta rivelando ciò che non riusciamo a vedere, che in quel momento non comprendiamo, ma che comprenderemo dopo, continuando ad osservarla (o, a giocare a calcio e, traendone poi, il suo insegnamento).
Non la conoscete quella bellissima canzone di Francesco De Gregori, La Leva Calcistica del ’68, scritta nel 1982, nella quale proprio la metafora calcistica viene utilizzata per rappresentare la vita di Nino? Nino uomo, non calciatore. E di nuovo, non è un caso se il calcio è al centro delle passioni nella vita di grandi artisti e se molti artisti sono grandi tifosi. Anche la canzone Una Vita da Mediano di Ligabue (1999), rubando al calcio l’immagine del mediano, spiega talune “dinamiche” e il contesto vissuti da un uomo, ma in un’accezione umana e sociale molto diversa da quella del giocatore, porgendoci un’intuizione in grado di permetterci di afferrare il senso e la verità che quella condizione impone.