Argomento frivolo, anche se si presta a qualche riflessione e considerazione di carattere sociologico: espressione di un modo di essere, di “sentire”. Forse, chissà, a prestare attenzione a queste frivolezze, qualcosa in anticipo si poteva cogliere, e anche comprendere di quanto si agita negli Stati Uniti, e nel mondo in generale.
Il fatto è questo: quel 19 dicembre di trent’anni fa, è nata una famiglia; una famiglia americana; forse un prototipo della famiglia americana, che non è più quella che sognava e aspirava di avere, un giorno, la casa in cima alla collina. E’ diventata qualcosa d’altro: la famiglia a cui parla e fa riferimento l’attuale inquilino alla Casa Bianca.
Il 19 dicembre 1989 va in onda la prima puntata di una sitcom a fumetti destinata a fare in qualche modo storia: “Simpsons Roasting on an Open Fire”, o “The Simpsons Christmas Special”.
Una famiglia composta dal padre Homer, la madre Marge; Bart, Lisa e Maggie, i figli.
Secondo la leggenda, le cose sono andate più o meno così: Matt Groening, il disegnatore ideatore della saga, ha notizia che la Fox vuole inserire dei cartoon animati all’interno del “Tracey Ullman Show”. Curioso, va a chiedere di che si tratta. E’ in anticamera, e un tizio che non conosce senza troppi complimenti gli domanda: “Che hai portato?”. Preso alla sprovvista, Groening dice che non ha nulla. Il tizio lo guarda sorpreso: “Guarda che i boss si aspettano qualcosa da te”. Groening estrae il pennarello dal taschino, sul primo foglio di carta che trova si inventa alcuni personaggi, la famiglia Simpson appunto. L’ultimo schizzo, e qualcuno lo chiama nella stanza dei boss. James Brooks, modi spicci di chi è nato e cresciuto a Brooklyn, dà una rapida occhiata agli scarabocchi; a bruciapelo chiede: “Il padre, che mestiere fa?”. Groening dice la prima che gli viene in mente: “Lavora in una centrale nucleare”.
Scoppia una generale risata. Sono nati i Simpsons.
Il colore giallo della pelle viene spiegato da Matt Selman, uno degli sceneggiatori: “Groening voleva che, una volta acceso il televisore, il pubblico pensasse che il colore giallo fosse un problema tecnico della TV. Si sarebbe chiesto: perché sono gialli? Poi avrebbe cercato di risintonizzare il canale, naturalmente senza riuscirci, perché il giallo è vero”. Un inganno? Sì, un inganno; ma, dice Selman, “è una cosa che si fa spesso nel mondo dello spettacolo”.
L’iter di un episodio è complesso. Altro che gli schizzi della nascita. Un episodio richiede una media di sei-otto mesi di lavoro, impiega circa 250 persone; un solo soggetto è frutto del lavoro di una dozzina di scrittori. Ogni trama ha dei “paletti” attorno ai quali si sviluppa: c’è un problema da risolvere; il problema si complica. Tutto ruota su questi due assunti. I disegni sono realizzati su grandi fogli di acetato. Approvati, sono spediti in Corea (questione di costi, minori), per l’animazione intermedia: circa quattordicimila tavole (sì: 14.000). Occorrono 25 fotogrammi al secondo, cosicché i disegni, tornati negli Stati Uniti raddoppiano. In questa fase dei lavori i doppiatori lavorano gomito a gomito con i disegnatori: per rendere il movimento delle labbra dei personaggi il più coincidente possibile con quello reale. Spesso intere sequenze sono ridisegnate perché la “somiglianza” non era soddisfacente.
La filosofia Simpsons è sintetizzata con efficacia dal suo autore:
“Insegnanti, capi ufficio, personalità del clero, politici, per i Simpsons sono dei dementi e credo che questo sia il grande messaggio. Quello che conta per chi li guarda è che sia raccontata una buona storia e che non siano impartiti precetti morali. I Simpsons fumano, bevono, sporcano e non si allacciano le cinture in automobile. Vanno a messa ogni domenica e parlano con Dio. Abbiamo mostrato anche lui: solo che lui ha cinque dita per mano, mentre i Simpsons ne hanno quattro”.
La quintessenza del “Make America, Great Again” di Trump, verrebbe da dire. Ma sono solo cartoon. O no? La prossima volta, comunque, prestiamogli una briciola di attenzione. Non si sa mai.