Si è chiusa nei giorni scorsi, presso la storica Casermetta di San Paolino sulle Mura di Lucca, la mostra postuma di Antonio Martini, artista lucchese (LU, 1915 -1996) e scenografo di altissimo livello, autore di importanti allestimenti di film di successo, che hanno fatto da sfondo ad attori famosissimi (Sofia Loren, Alberto Sordi, Audrey Hepburn, Henry Fonda ed altri ancora), nonché fidato collaboratore di Ettore Scola, Mario Monicelli, Vittorio De Sica e altri famosi registi.

La mostra, fortemente voluta e organizzata dall’editore Walter Farnesi insieme alla figlia dell’artista, Anna Lena Martini, racconta i vissuti autentici e interiori di quest’uomo silenzioso e riservato, le sue riflessioni intime e personali, i turbamenti impetuosi e improvvisi: un excursus ricco e tortuoso, nel quale è possibile scorgere l’evoluzione artistica – nonché stilistica – di questo autore, dal carattere mite seppure ostinato, sempre in grado di rimanere fedele a se stesso e ai propri desideri, come quello di riuscire a vivere senza mai dimenticarsi di “camminare sui suoi sogni”, scegliendo come sua dimora e, forse un po’ da eremita, una casa alle pendici del monte Faeta, a stretto contatto con la natura e l’autenticità di una vita semplice.

Ma le sue opere poco o nulla hanno a che fare con lo stile semplice e bucolico che, pensando alla campagna, potremmo immaginare. Se si escludono alcuni lavori caratterizzati da paesaggi e squarci di scenari campestri – raffigurativi delle atmosfere tipiche dei contesti che Martini viveva – restano le opere più impegnative e avveniristiche, molto vicine a quelle che iniziava a realizzare anche Alberto Burri nella vicina Umbria. Sembra quasi che i due autori, probabilmente vivendo lo stesso periodo – storico, politico e sociale – e accumunati da una simile sensibilità, avessero individuato uno stile, parzialmente affine. Forse, un modo “artistico” di vivere i cambiamenti e le vicissitudini sociali (il post guerra) ovvero, un modo per rielaborare e, quindi, approdare a forme e suggestioni suggerite da un inconscio – anche collettivo – che, solo adesso, iniziava a liberarsi, non senza strascichi, del senso di oppressione vissuto durante il regime fascista.

Se osserviamo l’opera P30 notiamo una inequivocabile dicotomia interiore, un conflitto ben definito tra aspetti contrastanti della personalità dell’autore: le sue guerre sono egregiamente rappresentate dall’accostamento di colori dalla opposta tonalità e che, insieme, danno forma e spessore all’opera. Sembra che elementi diversi e lontani fra loro, anzi, distanti come rette parallele, riescano, condotti all’infinito, a incontrarsi e dialogare insieme; ed è nell’opera che quell’ “infinito” si concretizza. Lì, in quello spazio – infinto – avviene l’incontro, il “punto” – l’intuizione – al quale il Martini prima accede e, nel quale poi, permette ai due elementi di incontrarsi, dando corpo a un elaborato creativo di altissimo spessore, in cui forme eteree di aria e d’immaginazione – il bianco – si mescolano al sangue della sua vita – la concretezza – ovvero, il rosso. In questa originale armonia la tela trova la sua identità, insita nella stessa essenza dell’opera da lui creata. O, come egregiamente scrisse di lui Giulio Carlo Argan sulla rivista Artes del 1961: “…La pittura di Martini è l’aggressione dell’esistenza contro la passività della presenza”.

Intervista alla nipote dell’artista, Cristina Martini. Regia di Patrizia Lazzari