Sedici tempere realizzate tra il 1799 e il 1806, che ritraggono figure di ninfe e danzatrici ispirate dalle raffigurazioni pompeiane e che segnano l’apice della produzione pittorica del noto artista italiano Antonio Canova. Una prima assoluta per il pubblico americano, ospitata dall’Istituto Italiano di Cultura, organizzata in contemporanea con l’esposizione della statua di gesso di George Washington dello stesso autore alla Frick Collection e con la mostra fotografica dedicata alle sculture del Canova presso il Consolato Generale d’Italia. L’occasione, ça va sans dire, è ghiotta per tutti gli amanti dell’arte italiana, che proprio con il grande scultore neoclassico, questa primavera, la fa da padrona in quel di New York. Ma quella offerta dall’Istituto diretto da Giorgio Van Straten è una vera e propria “chicca”: perché lì non troverete il noto Canova di Amore e Psiche o della statua di Paolina Borghese – quel Canova che, da scultore, magistralmente riassume i canoni di “nobile semplicità e quieta grandezza” del neoclassicismo così come sintetizzati dal suo teorico indiscusso Johann Joachim Winckelmann -, ma, piuttosto, un Canova che, non con il marmo o la creta ma con le tempere e la carta, si diverte a rappresentare un’arte che sempre – come confessò a un amico – lo attrasse e lo ispirò nella sua corporeità: la danza.
“Il tema della danza per Antonio Canova è molto rilevante”, ci ha spiegato Mario Guderzo, curatore della mostra, nonché direttore della Gypsotecha e del Museo Antonio Canova di Possagno – paese d’origine dell’artista -. “In effetti, Canova realizzò tre sculture che rappresentano tre danzatrici, su richiesta di grandi collezionisti a livello europeo”. “Canova”, ha proseguito, “è un artista che arriva da un piccolo paese veneto, portando con sé uno spirito molto genuino. Nonostante fosse contemporaneo di Mozart e di Beethoven, amava confrontarsi con quello spirito che lo riportava proprio alle cose semplici”. In effetti, quello da cui si rimane colpiti, osservando le tempere, è quel senso di assoluta e maestosa semplicità, intesa come vibrante naturalezza della figura, che domina le composizioni, pur incredibilmente ricche di dettagli figurativi. Allo stesso tempo, emerge anche una leggiadra giocosità che stupisce, pensando alle più famose sculture dell’autore. Giocosità che stupisce meno, se si pensa, come ci ha opportunamente spiegato Guderzo, che “Canova amava frequentare le colline romane, assistendo alle sagre e alle feste popolari. E in quelle occasioni, gli piaceva il ballo della tarantella”. Esperienze che hanno fortemente ispirato l’artista nella realizzazione delle tempere esposte all’Istituto Italiano di Cultura, e che restano impresse nei movimenti e nei colori, nei dettagli e nella leggiadria delle rappresentazioni.

Il direttore Giorgio Van Straten si è mostrato particolarmente orgoglioso di presentare al pubblico americano questa straordinaria iniziativa. “È un onore per noi avere qui queste 16 bellissime tempere di Canova, un’occasione che è nata dal progetto che ha portato in questi stessi giorni alla Frick Collection il modello della statua di Washington poi andata perduta. Abbiamo quindi pensato, come anche già successo in passato, di collegarci a un evento di un’importante istituzione newyorkese, aggiungendo un’occasione come questa”. Ma che cosa offre – gli abbiamo chiesto -, in più o di diverso, questa mostra dell’Istituto, rispetto alle altre due iniziative parallele su Canova? “Qui si vede il Canova pittore, che è qualcosa che non si incontra praticamente mai, e si scopre che un artista entrato nella storia come scultore, anche come pittore ha una mano straordinaria. Oltretutto, la sua pittura in qualche modo si collega anche con il suo essere scultore. Si capisce da un lato la sua fascinazione per la pittura romana, con riferimento agli affreschi murari di Pompei, ma anche la sua attenzione costante al corpo e alla sua rappresentazione”.
Senza contare che queste tempere, oltre ad essere delle opere in sé piene di valore artistico, possono considerarsi anche “uno strumento straordinario del processo creativo” dello scultore, che compì una continua e attenta ricerca nella rappresentazione del movimento e della danza, tanto difficili da ritenere nel marmo. Ma che cosa può comunicarci l’arte di Canova – esempio per eccellenza della “nobile semplicità” e della “quieta grandezza” del neoclassicismo -, in un mondo dove la velocità, la frenesia, la complessità hanno totalmente modificato i canoni estetici di un tempo? Per Van Straten, un artista del calibro di Canova non può perdere la sua attualità. “Proprio in questi giorni, al Met Breuer vi è una mostra dedicata al tema del corpo, che è interessante perché sottolinea come questo elemento della riproduzione del corpo sia una costante attraverso i secoli, nonostante i movimenti estetici che cambiano profondamente. C’è anche una tendenza a tornare alla scultura come riproduzione perfetta del corpo umano: in questo senso credo che il neoclassicismo di Canova sia più attuale di quello che possa apparire a un primo sguardo. Penso a diversi scultori, anche contemporanei, in cui l’elemento della scultura classica è fortemente presente, ad esempio con una riproduzione senza colore”. In ogni caso, prosegue, “considero la storia dell’arte, quando è espressa a questi livelli, sempre attuale. Canova, insomma, continua ad essere un riferimento indiscutibile. E questa – insieme alle altre due prima citate – è anche un’occasione per dargli ulteriore visibilità”.
Una riflessione che riporta, in certa misura, al dibattito, anche febbrile e tormentato, che percorre tutta la modernità – da Charles Baudelaire in poi – sulla funzione e la possibilità stessa dell’arte nel mondo contemporaneo, mondo che, come direbbe il grande poeta francese, ha ormai “perso l’aureola”. Un mondo che pare dominato da altri numi, come il dio denaro, la finanza, l’utilità nuda e cruda, il mercato. “Per non parlare del mercato dell’arte: basti guardare le aste di questi giorni per rendersi conto di quanto sia vitale l’arte, almeno da questo punto di vista”, osserva, sorridendo, Van Straten. Ma aggiunge: “Io ritengo l’espressione artistica in senso lato uno strumento di conoscenza, e in quanto tale mi pare insito nell’animo umano. Naturalmente, vi sono periodi in cui vi è una maggiore attenzione e udienza – non solo in termini mercantili ma anche conoscitivi -, e dei periodi in cui sembra meno sotto i riflettori, ma sono convinto che non si possa prescindere da questo. Poi certo: l’arte può essere più esteticamente rilevante come quella di Canova, o più fortemente inserita in una dimensione conoscitiva, ma in tutti i casi ricopre una funzione insostituibile. Per quanto mi riguarda, mi risulterebbe difficile vivere una vita senza arte, senza musica, senza libri”.
Che dire, invece, dell’Italia, leader mondiale nel campo dell’arte e della cultura, e talvolta troppo poco attiva nel valorizzarle e nel renderle vere opportunità di sviluppo? “In certa misura l’arte è già occasione di sviluppo, specialmente nel turismo”, ricorda il Direttore. “Pensiamo a un piccolo paese come Possagno, di duemila anime, che riesce ad attirare 50mila visitatori l’anno al Museo Canova”. Poi osserva: “Il nostro problema è che di arte ne abbiamo così tanta che spesso è complicato non solo valorizzarla, ma anche conservarla, per via dei costi difficili da sostenere. Io penso sia importante sottolineare come dall’arte, dalla cultura in Italia derivi un’identità che non ha solo radici nel passato, ma che continua a esprimersi anche oggi, per quanto sia difficile confrontarsi con i colossi che ci hanno preceduto. Lo si vede ad esempio qui a New York, città piena di promettenti giovani artisti di ogni genere. Non solo: questa presenza della cultura in Italia produce una sensibilità estetica che, anche a livello di produzione (penso al design e non solo), è tanto apprezzata nel mondo proprio perché è in qualche modo legata a questa nostra identità”. Una qualità artistica, storica e paesaggistica intimamente italiana che “permette ancora oggi di avere una creatività che tutto il mondo ammira”. Paradossalmente, è però più difficile essere pienamente consapevoli di questa ricchezza stando in Italia. “Resta tutto sommerso dal nostro ipercriticismo”, sottolinea Van Straten. “Vale anche per me: ora che sono qui negli Stati Uniti, capisco quanto di straordinario può offrire il nostro Paese, perlomeno sotto questo punto di vista”.
L’altro paradosso è poi quello per cui un giovane che si laurea in Beni Culturali o in discipline simili nel nostro Paese sia poi destinato alla disoccupazione. “Sì, è vero: noi abbiamo tutto questo e spesso non abbiamo risorse; e spesso abbiamo le risorse e le utilizziamo male; e spesso chi fa esperienze all’estero ha molte difficoltà a tornare indietro, non solo per la mancanza di risorse, ma anche perché gli ambienti sono chiusi e molto poco permeabili. Io, fortunatamente, mi occupo di un’altra missione in questo periodo, cioè di promuovere la cultura italiana verso gli americani qua, e questo è un compito relativamente facile. La valorizzazione in patria è invece molto più complessa: ci sono eccezioni, ma le criticità restano. Potenzialmente, ci sarebbe la possibilità di impiegare moltissimi giovani, in modo anche creativo e utile”, riflette Van Straten. Qual è la soluzione del rebus, insomma? Secondo il Direttore, “bisognerebbe incoraggiare anche i privati attivi nel campo a investire di più. Forse, se ad esempio si trovassero delle forme di garanzia nella relazione pubblico-privato, credo che il privato potrebbe investire molto di più anche nel patrimonio pubblico. Ovviamente, avendo l’assicurazione che il suo investimento sia efficace nella valorizzazione di quel patrimonio”.
Insomma: le cose su cui lavorare non mancano. Ma una mostra come quella su “Canova e la Danza” all’Istituto Italiano di Cultura di New York testimonia anche le enormi potenzialità di un Paese, il nostro, che, in campo artistico e culturale, non ha eguali nel mondo. Impossibile non entrare in quella sala, godere della bellezza pura e limpida del pennello di Canova, e non sentirsi pervadere da un senso di orgoglio, nel senso più nobile del termine, per la nostra identità. Un’identità che tutto il mondo, e a ragione, ci invidia, e della quale dovremmo imparare ad andare più fieri.