Una contemplazione sulle origini dell’essere, un riconnettersi l’un con l’altra, al di là di differenze etniche, culturali e religiose.
Nasce da queste osservazioni Whispers, la personale di Angelica Bergamini, artista italiana di Viareggio, che sarà inaugurata l’8 Maggio a New York presso la Ivy Brown Gallery, nel Meatpacking District.
Angelica, studia prima pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze e alla Facoltà di Belle Arti di Granada. La Spagna per lei è una tappa fondamentale non solo perché vincitrice di una borsa di studio presso il dipartimento di Audiovisivi del Centro de Arte Reina Sofia di Madrid ma è in Spagna che segue corsi per approfondire tematiche legate al simbolismo e psicologia del colore.

Nel 2004 Rosanna Chiessi la invita a partecipare al progetto Un cuscino per sognare dove espongono tra gli altri Yoko Ono, Daniel Spoerri e Franco B. In seguito, dopo aver esposto ad Hong Kong, nel 2006 si stabilisce a Brooklyn, New York. Qui crea una linea di arte da indossare (wearable art) ispirata alle sue sculture, acquistata dai bookshop di New Museum, La Triennale, White Box Gallery e pubblicata su Vogue gioiello e Glamour Italia.
Un suo intervento di site–specific art è stato commissionato nel 2012 dall’hotel Hyatt Union Square di New York, diventando parte della collezione permanente.
Nei suoi lavori, oltre alla pittura e alla scultura, negli ultimi anni ha iniziato ad utilizzare il video, con il quale crea animazioni dei suoi mixed media su carta.
A La Voce ha raccontato del suo percorso e della mostra che sta per presentare.

Paper cut, collage, archival pigment print on Metallic Glossy paper. By Angelica Bergamini
Sul ruolo di New York, come centro artistico indiscusso, ha detto che “la città rischia di perdere quel fermento creativo che l’ha resa così speciale, allontanando non solo gli artisti ma anche le minoranze che con la loro presenza arricchiscono decisamente la cultura della città. Siamo ancora molti ma sta succedendo”.
Whispers, la tua personale che sta per essere inaugurata, riprende il tema delle radici e continua il tuo approccio con l’arte mettendo insieme, scultura, pittura, video. Puoi spiegarci nel dettaglio da dove nasce e come si pone in linea con le tue precedenti?
“La serie Fons et origo (serie di lavori con cui ha inizio il progetto Whispers) è nata nei giorni delle elezioni americane, direi subito dopo l’8 novembre del 2016. La vittoria di Trump è stata letteralmente un shock, una presa di coscienza di come il Paese sia diviso a metà. Per mesi si è respirata un’aria pesante, ma allo shock è seguita la reazione, e siamo scesi in piazza. Le comunità si sono mobilitate per creare supporto alle categorie a rischio, soprattutto nelle sanctuary cities come NY e Los Angeles; sono state organizzate mostre per raccogliere fondi per associazioni come Planned parenthood, ACLU ecc. Per non parlare ovviamente della grande Women March.
E così, nel 2016, Whispers ha cominciato a prendere forma, in quanto i miei lavori non nascono mai da un’idea ma esprimono ciò che sento. Quanto siamo diversi se ci si osserva dal cosmo? Siamo effettivamente polvere di stelle: gli elementi chimici nel nostro corpo sono gli stessi che ritroviamo nell’universo.
Mi viene in mente quella foto scattata nel ‘90, la Pale blue dot, dove la terra sparisce dietro l’immensità dell’universo, una visione direi telescopica che mi ha aiutata a distaccarmi dalla situazione politica che stavamo vivendo, per ricercare un senso di unione e appartenenza con quella vasta dimensione spazio temporale da cui tutti proveniamo e in cui la nostra esistenza è pari a uno battito di ciglia.
Le tre serie esposte a Whispers esprimono questo: la nostra origine comune, le nostre radici nel cosmo. Una contemplazione sulle origini dell’essere, un riconnettersi l’un con l’altra, al di là di differenze etniche, culturali e religiose.

Angelica Bergamini con la sua opera “Come As You Are”.Sicuramente questo progetto è stato anche molto influenzato dai libri di Marija Gimbutas e Riane Eisler che avevo letto poco prima. Gimbutas, archeologa lituana, ne Il linguaggio della Dea, descrive le civiltà del Neolitico come pacifiche e in armonia. Le divinità che queste civiltà veneravano erano in gran parte femminili e fra i loro valori sembra fossero enfatizzate la non violenza e il rispetto per la natura. Reine Eisler, sociologa e saggista americana, ne Il calice e la Spada dopo un attento studio di queste civiltà, propone gli strumenti per costruire una società in cui etnie e generi possano convivere in maniera pacifica e equa”.
Memento, nel 2009, nasce dal bisogno di riprendere in mano con forza il concetto delle radici e nello stesso tempo del diritto alla mobilità. Che ruolo assume l’arte in un contesto storico come quello attuale e come si incrocia con la tua personale storia di migrante?
“I primi anni a NY sono stati una corsa, e ad un certo punto mi sono resa conto che avevo bisogno di rivedere le mie radici, il mio albero, la mia storia. Da dove vengo e cosa porto con me. Vivi in una città che è un melting pot; in metropolitana, stazione dopo stazione culture e religioni si siedono accanto. Ognuno e ognuna con la propria storia, radici e affetti in terre più o meno lontane. Le differenze andrebbero celebrate e sicuramente rispettate. E credo che l’arte aiuti a far questo.
Così, da Memento nasce sia Fons et origo (Fonte e origine) che The universe is made of stories (work in progress), serie dedicata al calderone di storie che è NY”.
Formazione italiana e spagnola, sei arrivata nel 2006 negli Stati Uniti, in che modo questi tre Paesi hanno contribuito alla tua formazione accademica e a quella personale?
“Apprezzo oggi più che mai le strade di Firenze, le sue biblioteche e musei, quelle strade che hanno visto la storia e hanno sostenuto i passi di Michelangelo e Dante, per citarne giusto un paio.
Negli anni in cui l’ho frequentata, l’Accademia aveva ancora un’impostazione abbastanza tradizionale con cui a volte ho faticato. Il lavorare, per esempio, ad incisione usando un torchio del 1850, direi che può capitare quasi esclusivamente in Italia.

A Granada in Spagna sono arrivata nel ‘95 con una borsa di studio per frequentare la Facoltà di Belle Arti. Qui ho potuto usare laboratori di cui all’epoca l’Accademia di Firenze ancora non disponeva, e frequentando il corso di video scoprii un regista granadino José Val del Omar, che divenne poi il soggetto della mia tesi. Grazie a questo progetto potei accedere come ricercatrice all’Alhambra, dove preparai un lavoro fotografico poi esposto in sede di tesi, e di lavorare successivamente grazie ad un’altra borsa di studio, nel dipartimento di Audiovisivi del Museo Reina Sofia a Madrid. La Spagna, e soprattutto l’Andalusia, e il suo magico interscambio con la cultura islamica dei Mori, sono state un’esperienza intensa, una memoria ancora molto viva nonostante siano passati diversi anni.
NY rappresenta una crescita sia a livello professionale che a livello personale. Non nascondo che non siano stati faticosi i primi anni, anzi, ma ho sempre trovato entusiasmo e sostegno. L’energia della città e delle persone che incontri ti conquista”.
New York resta ancora il rifugio e il centro per eccellenza dell’arte secondo te? Non solo come vetrina ma soprattutto come laboratorio di nuovi processi artistici in atto.
“Decisamente il centro di una creatività molto attiva, grazie alla quantità di professionisti del campo delle arti visive e non solo che puoi incontrare. Non so in quale altra città possa accadere con tale frequenza. E fai spesso incontri interessanti dai quali non raramente nascono collaborazioni. Il mio primo video è nato così, collaborando con una fonica del cinema e una producer di HBO entrambe appassionate al progetto. I primi anni a NY ho avuto un piccolo studio del palazzo dei 5Pointz in Long Island City davanti al PS1, 5 piani di studi di artisti. Fra open studios e studio visits ho avuto la possibilità di lavorare, incontrare e confrontarmi con artisti provenienti da tutto il mondo”.
In che modo il processo di gentrificazione ha avuto un impatto sull’arte?
“Tanti artisti hanno lasciato la città e vivono già da anni nell’ Upstate NY. Recentemente alcuni amici hanno lasciato NY per trasferirsi a Philadelphia. Gli spazi dove lavorare sono sempre più piccoli e costosi. Brooklyn è sempre più cara. La città rischia di perdere quel fermento creativo che l’ha resa così speciale, allontanando non solo gli artisti ma anche le minoranze che con la loro presenza arricchiscono decisamente la cultura della città. Siamo ancora molti ma sta succedendo”.

Come vedi invece oggi l’arte in Europa e in Italia? Ci sono città da tenere in considerazione o movimenti che stanno emergendo?
“Sono in contatto con alcuni artisti e curatori in Europa con cui collaboro, ma non posso parlare con precisione della situazione europea. So che Lisbona è già da qualche anno considerata la nuova Berlino, con grande attenzione all’arte contemporanea che ha portato artisti a trasferirsi là e di conseguenza l’apertura di nuove gallerie e spazi espositivi”.
Molti sono gli artisti italiani a NY che lavorano nel tuo stesso campo. La sensazione è però di un gruppo frammentato che non lavora in modo corale (forse mi sbaglio). Si può parlare per numero e per contributo nella scena newyorchese di una scuola italiana a NY?
“Ognuno arriva a NY con il proprio percorso sia artistico che di vita. Con la voglia di fare, di metterci in gioco, confrontandoci con una città non sempre facile, in cui conquistiamo il nostro spazio e la possibilità di far sentire la nostra voce. Non c’è un movimento che ci accomuna. Ho diversi amici artisti e arrivano un po’ da tutte le parti, rispecchiando quella che è la popolazione di NY. Recentemente ho incontrato un’artista italiana, anche lei a NY da più di 10 anni che come me (e tanti altri) vive e lavora a Brooklyn. Eppure non ci eravamo mai viste prima”.