Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il tempo e il momento per recensire l’artista Jacopo Cardillo, per gli amici e in arte, Jago. L’appuntamento è arrivato solo pochi giorni fa, quando la Galleria Montrasio Arte di Monza ha presentato l’artista ciociaro al prestigioso Armory Show di New York, con un’opera in legno e marmo, nella quale un bambino seduto su un seggiolone si accinge a giocare con i suoi mattoncini Lego, impilandoli e dando forma alla sua immaginazione. Ma l’opera riporta un nome non troppo stimato, soprattutto di questi tempi, Donald.
Nato nel 1987 a Frosinone, Jago vive e lavora tra il Lazio e il Veneto, dividendosi tra lo studio di Anagni e l’atelier di Verona. Nel 2011 è selezionato per il Padiglione Italia della 54a edizione della Biennale d’Arte di Venezia, a seguito della quale abbandona l’Accademia di Belle Arti a Frosinone.
E’ del 2012 la sua prima mostra personale, allestita presso il Museo della Media Valle del Liri a Sora (FR), presentata da Vittorio Sgarbi e la storica dell’arte Maria Teresa Benedetti. La sua seconda personale è organizzata nel 2014 presso la Fondazione Umberto Mastroianni nel Castello Ladislao di Arpino (FR).
E’ vincitore di numerosi premi tra i quali il I Premio Gala de l’Art di Monte Carlo (Principato di Monaco) e il Premio Arkes (Castello Boncompagni Viscogliosi, Isola del Liri) nel 2013. Nel 2015 gli viene conferito il Premio Pio Catel con l’opera Containers. Nel 2016 espone la sua prima personale a Roma, Memorie, presso la Cripta della Basilica dei Santi XII Apostoli, alla quale seguiranno due collettive, Terapie d’Urto, presso la LUISS Guido Carli di Roma e Poppi Deposito D’Arte presso il Castello di Poppi di Arezzo. Nel dicembre 2016 partecipa alla collettiva RILEVAMENTI 1, con le opere Excalibur e Containers, presso il CAMUSA – Cassino Museo Arte Contemporanea. Nel gennaio 2017, con l’opera Eataly, si aggiudica il premio del pubblico presso Arte Fiera Bologna; nel mese di maggio inaugura una sua personale e, successivamente, la stessa viene replicata a Monza presso la Galleria Montrasio Arte di Milano. Nell’estate del 2017 realizza la prima performance live di Scultura 3D in Italia a Guardiagrele (CH) per il festival Artigitale e a settembre, in occasione del MarmoMac 2017 di Verona, riceve l’investitura come Mastro della Pietra.
Nel mese di ottobre 2017 espone la sua opera Facelock al MAXXI di Roma per la collettiva Generation What? promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro e IULM. Infine, presso il Museo Carlo Bilotti di Villa Borghese a Roma è in corso, ancora per qualche giorno (fino al 2 aprile), la sua mostra personale Habemus Hominem.
E’ evidente che le capacità di Jago siano straordinarie. Da oltre un anno osservo attentamente e silenziosamente i suoi lavori e i suoi comportamenti artistici. Lo seguo su Facebook, scorro il suo sito, guardo i suoi video, studio i suoi spostamenti. Indago. Esploro. Valuto. Apprezzo. Jago c’è, è un fatto reale, un artista dal senso compiuto. Ed è tremendamente giovane, consapevole, maturo. Uno scultore di poco più di trent’anni, che sa perfettamente quale sia la sua strada, quale posto occupi nel mondo, il senso della sua esistenza. E anche della sua Arte.
Inizia la propria ricerca partendo dal valore simbolico – e da un certo punto di vista anche concreto – dell’elemento della pietra. L’archè, il principio, l’origine, ma anche il riferimento – la pietra miliare: l’elemento storico che custodisce la memoria del tempo, testimone della storia del mondo e dell’uomo.
E’ nella scultura che trova il mezzo per rielaborare la propria identità e la sua esperienza. Sceglie l’elemento della pietra – del marmo – per dare vita alle proiezioni della sua ricerca: la stessa che gli suggerisce il divenire della realtà – del proprio Io (di artista e di uomo) – e della vita. Non a caso utilizza la forma-simbolo della mano per raffigurare il proprio autoritratto (Ego, 2007): scolpisce la parte del corpo che più lo rappresenta, che gli consente di essere chi è, di dare una visione e una vita alle sue elaborazioni interiori. E’ attraverso la sua mano che prima sente, poi percepisce e, infine, intuisce l’impeto del proprio gesto creativo, inseguendolo per poi tracciare l’essenza della sua opera; che solo in una fase successiva sceglie di rifinire nel rispetto del tecnicismo più evoluto, la perfezione più rara o la più intatta, originaria, essenziale integrità (Sotto pelle, 2015; Muscolo-vegetale, 2015).



E’ chiaro che “indagare” il marmo – come scrive Jago – corrisponda all’attività dello scolpire; ma, simbolicamente, questa attività si riflette e concretizza nel processo di indagine introspettiva che lo stesso compie dentro di sé proprio al momento in cui si accinge a scavare la pietra, forse profanando il suo Io più profondo e sconosciuto, al fine di coglierne i misteri, comprenderli, svelarli e riportarli alla luce, in quelle forme che più si conciliano con la propria naturale, personalissima, intuizione (La pelle dentro, 2010).
L’opera Memoria di sé (2015) è piena di fascino, attrazione, originalità. Come in un dejavu, l’involucro di pietra s’impone davanti agli occhi dell’osservatore: è qui dentro che Jago immortala l’idea di se stesso ma anche della sua vita interiore. Una forma che, a priori, avrei attribuito a mani femminili e materne, nella quale un “uovo-ovulo” si manifesta come simbolo di fecondità, vita, sopravvivenza ma anche del divenire e della continuità. Ma Jago mi spiazza, perché il suo guscio fa risaltare il mio condizionamento sociale e di genere – i miei limiti – mentre lui, artista (libero), si serve egregiamente di quella perfezione “ovulare” per farsi contenere interamente, nella sua completezza di adulto e di uomo, in senso consapevole e non. Nella quale un Io attuale e maturo – ciò che Jago è diventato – custodisce l’Io recondito (puro, inconscio), impresso nella sua memoria in quanto uomo, che sin dalla nascita, – e come in tutti gli uomini del mondo – racchiude e porta con sé la storia e quanto di più ancestrale è stato generato e, in lui, conservato. Al contempo, costituisce la parte di sé che non ha mai abbandonato, né tradito; una memoria che egli ha recuperato attraverso e tramite l’arte e gli consente di essere, oggi, quello che è realmente, e di assomigliare a tutti i costi, solo a se stesso.


Anche la recente opera presentata dal sette al dieci marzo scorso, durante l’Armory Show di New York, Donald, valorizza quella parte, autentica, che è appartenuta a tutti: il bambino, il suo mondo avvolto nella purezza, ma anche simbolo della storia e delle origini dell’uomo; perché siamo stati tutti bambini, e questa opera è, forse, un invito a riflettere sul modo in cui smettiamo di essere tali, spesso perdendo la nostra identità originaria. Ma senza troppe polemiche né provocazioni, il nome dell’opera concede alla stessa una connotazione precisa, perché considerato il contesto storico in cui viviamo, l’associazione a Donald Trump è inevitabile e la scultura è una mera riflessione sulla possibilità che tutti gli uomini possano diventare degli ipotetici Donald (allo stesso tempo mi chiedo chi, tra cinquant’anni, penserà a Donald Trump leggendo il nome di quest’opera). E’ forse, anche un invito a monitorare i propri comportamenti, perché gli stessi non risultino, seppur in piccolo, assimilabili a quelli che oggi giudichiamo in altri. Del resto, chi non ha mai costruito un muro?