Abbandonate tecniche, perfezione e razionalità se vi trovate davanti ad un’opera di Tannaz Lahiji. L’artista di adozione fiorentina nata a Teheran da genitori artisti e diplomata giovanissima in pittura (nonché dal 2000 insegnante di Anatomia alla Università d’Arte di Teheran; dal 2008 insegnante di Disegno presso la LABA – Libera Accademia di Belle Arti di Firenze – e dal 2012 anche in Anatomia Artistica presso la medesima accademia fiorentina), gallerista e critica d’arte, ancora trentenne conta alle spalle una carriera degna di “maestro” (le sue esposizioni si sono tenute in tutto il mondo: solo per ricordare le più importanti mostre personali, ricordiamo quelle internazionali a Teheran, Londra, Mosca, Los Angeles, Shanghai, Darmstadt in Germania; e in Italia, maggiormente a Firenze, Pontedera (PI), Lucca, Pietrasanta e in tutta la Toscana, finanche in Umbria, Sardegna e Calabria).
Di formazione iraniana, sebbene insegnasse anatomia, subisce il limite della censura del nudo integrale finché la vita e il bisogno di viverla, la portano a Firenze per frequentare un master. Nella città fiorentina impara la bellezza del nudo, la libertà di rappresentare il corpo nella sua interezza, dentro la verità e la vulnerabilità che in esso si conservano e che, solo attraverso la sua espressione si rivelano. Presto rinuncia alla bellezza figurativa e si dedica alla spontaneità del gesto e della forma. Abbraccia l’arte performativa; dice di sé: “Avevo bisogno di lavorare con il corpo, di interagire con le mie modelle e proiettare quella relazione sulla tela, senza razionalità né condizionamenti stilistici o accademici”.
Persegue il suo percorso di performer e docente e, approfondendo le sue ricerche, individua un metodo personale d’insegnamento, lontano dai soliti schemi convenzionali ed estremamente innovativo. Tannaz Lahiji sa che l’arte passa attraverso canali diversi da quelli razionali e intuisce che gli stessi sono in genere associati principalmente al senso della vista. Qui nasce la sua esigenza: “Come faccio a insegnare ai miei studenti a diventare artisti usando tutti i sensi del corpo, non solo la vista?”. La sua risposta è semplice e altrettanto intelligente: “Disattivo le capacità visive; il mio approccio si basa, in un certo senso, sulla sottrazione. Disinserendo un senso alla volta, gli altri si attivano necessariamente per compensare quello mancante. L’ho dedotto dai risultati degli esercizi svolti con i miei studenti, chiedendo loro, ad esempio, di disegnare senza guardare mai la carta, oppure concedendo solo pochi secondi per riprodurre un paesaggio o un nudo; o ancora chiedendo di immaginare un corpo guardandolo dalla prospettiva opposta (ritraendo il davanti se avevano a disposizione il retro, e viceversa). Ed altri esercizi simili… I disegni dei ragazzi provano l’esistenza di capacità e dinamiche cognitive sconosciute ma, soprattutto, del modo in cui la mente risponde a determinate condizioni e necessità. Allo stesso tempo, insegno loro a scoprire prima, e utilizzare poi, gli altri sensi, in modo che possano sentire e vivere il momento della creazione autentica dell’arte – priva di condizionamenti – attraverso il corpo e la sua percezione”.

Proprio questi studi hanno incuriosito la neuroscienziata Maria Felice Ghilardi del City College of New York (CUNY), la quale ha intuito che la correlazione esistente tra l’arte e l’utilizzo dei sensi “in modo compensativo” poteva rappresentare una risposta anche nel caso di patologie neurologiche, vale a dire, nei casi in cui altri sensi si attivano quando i principali sono offesi o limitati da malattie come il Parkinson o l’Alzheimer. Pertanto, lo scorso ottobre, proprio su invito del City College of New York, l’artista Tannaz Lahiji ha iniziato a lavorare sia all’interno del CUNY come ricercatrice in neuroscienze per la cura del Parkinson, che come docente di Art Therapy nel Dipartimento di Arte della NYU – New York University – orgogliosa di poter offrire un contributo alla ricerca. Ma il progetto è solo agli inizi e l’intenzione futura è di poter estendere la ricerca anche all’Italia tramite la realizzazione di un master internazionale che coinvolga le eccellenze italiane e statunitensi nelle neuroscienze (Art Therapy for Neurological Degenerative Diseases – Parkinson and Alzheimer). Anche se apparentemente lontane, l’arte e le neuroscienze hanno origine, in parte, entrambe da meccanismi sconosciuti del cervello: l’intuizione creativa – legata alla rielaborazione autentica dell’esperienza da parte dell’artista – e la ricerca delle funzionalità del cervello in riposta alle dinamiche patologiche più ignote.
Attualmente alle prese con una installazione in Toscana (che si inaugurerà a Firenze), ispirata all’Inferno della Divina Commedia di Dante e ai suoi gironi – con i dovuti riferimenti ai peccati e limiti appartenenti alla natura dell’uomo – tornerà presto a New York per proseguire la ricerca nei progetti iniziati. Tra qualche mese invece, sarà impegnata nella realizzazione di una performance con la scuola di danza Mark Morris Dance Group di Brooklyn (New York), anch’essa finalizzata alla ricerca nelle neuroscienze per il Parkinson.
Ma cosa sorprende di questa artista così eclettica? Forse la sua intensità che emana dalle grandi tele, dai lavori rifiniti in resina, nei liquidi dilaganti che si espandono liberi durante le sue performance artistiche? O la sua assenza di confini? Certo è che Tannaz Lahiji spazia e si muove, sulla terra e nell’arte, senza limiti e senza contenere le forme che crea, affinché il tutto trovi e segua il proprio corso; non mette confini a se stessa, né delimita il fluire delle sue creazioni. Le sue opere performative sono il risultato di una relazione unica, nuova e irripetibile, originata da e in quel contesto, dal quale si sprigionano energie potenziate da una sorta di contatto osmotico. Hic et nunc è il momento nel quale Tannaz immortala la testimonianza di una relazione vissuta in un tempo e uno spazio definiti, nei quali alcuni soggetti – attraverso un atto di fiducia reciproco – abbattono le resistenze e i condizionamenti (sono corpi nudi) – aprendosi al mondo e alla regia dell’artista, in grado di condurli uno ad uno – e allo stesso tempo coinvolgendoli insieme, rendendoli un corpus unico – dentro una esperienza che non potrà mai essere ripetuta allo stesso modo e della quale ogni soggetto – compresa lei stessa – conosce il punto di partenza ma non di arrivo; proprio come nella vita di Tannaz, in costante movimento e ricerca. Così hanno origine le sue opere, mere e proprie immersioni nella luce che affondano dentro litri di colori; e intingendo e sporcando i suoi modelli e le sue mani, spostando e quasi plasmando quelle orme sulla tela, l’artista compie una sorta di “rito dell’esistere” (inteso il verbo, nel senso proprio dell’origine latina ex-sistere, vale a dire “stare fuori da”) che si attua solo nel momento in cui si “esiste fuori dal sé”; in quel determinato arco di spazio e di tempo, in quella dimensione unica e irripetibile, che riporti all’esterno ciò che è dentro e che nessuno vede; forse percepisce. Ecco, in quelle superfici di colore Tannaz porta alla luce, In-luce, ciò che emerge da quella esperienza, vissuta con la memoria e con il corpo, certa che in quello scambio di energie e di storia sia custodita l’essenza dell’uomo. Infine, si serve del colore, concedendo una forma e un significato a ciò che in quei gesti-rito ha trovato, percepito, rielaborato.

Non chiama “Maternità” la sua opera realizzata tramite la presenza e la relazione con una modella incinta bensì, Terra. Nel corpo di quella donna, che Tannaz ha sporcato, adagiato su tela, toccato, l’artista non condivide un’esperienza legata alla maternità del soggetto coinvolto, ma coglie una verità diversa e lo fa attraverso un processo al contrario: non immortala la maternità ma la dimensione di se stessa come creatura generata e figlia della madre terra. Perché solo quella è la vera madre; in lei viviamo, è lei che ci accoglie e ci con-tiene. Così Tannaz è figlia di una madre molto grande e universale, la Terra di tutti, di tutto il creato, di cui fa parte l’uomo. Da questa esperienza nel mondo nasce la sua arte e in assenza di questa relazione molte delle sue opere non esisterebbero.

Dissolvenza è un lavoro misterioso: la fotografia di un fantasma, una sagoma spettrale si confonde nel calore di un giallo vigoroso, carico di forza e di speranza, assolato, in cui si percepisce il legame con la vita che questa artista, viva – che ha conosciuto la profondità del dolore, il buio originato dall’assenza improvvisa, il vuoto vorticoso della solitudine, forse, salva per miracolo o per volontà – non ha mai perso ed esprime fortissimo nelle sue tele. Ci sono Io e D’Io, la Comunicazione (o meglio la Benedizione), e altre rivelazioni a testimoniare un fatto accaduto, il suo hic et nunc irripetibile ed unico. Ma l’intensità di Tannaz non è solo nell’impatto luminoso delle sue tele: dal coinvolgimento di corpi, mani e colori si sviluppa la “trascendenza” tipica della sua poetica. Perché nei cicli delle sue opere si coglie anche il percorso che l’autrice compie nella personale rielaborazione artistica; partendo dallo studio degli elementi, se ne percepisce, contestualmente, il loro superamento. Come accade con i cicli di opere Oltre la luce. Ma valica anche Oltre la luce e riscopre l’elemento dell’acqua, di cui è fatto l’uomo e, nelle stesse proporzioni, anche la terra, soffermandosi sull’importanza dell’equilibrio perfetto che ne deriva e al quale l’acqua contribuisce a realizzare nella vita dell’universo. In questo modo, nel ciclo Ab-Acqua percorre un’altra tappa del suo viaggio che la porterà a scoprire altro, e ad andare oltre. Verso una dimensione più lontana e che ritorna, inevitabilmente, al punto di partenza, se stessa; una Tannaz più ricca e consapevole. Ogni giorno di più.