Il tema della damnatio memoriae nei confronti dei regimi sconfitti dalla storia e dagli uomini non è certamente nuovo: possiamo bene ricordare le immagini delle statue di Lenin trascinate giù dai piedistalli nei paesi aderenti al defunto Patto di Varsavia. Per non parlare del destino che quasi sempre tocca a chi ha fisicamente incarnato in prima persona il volto del regime, quello che in gergo pop-rock è definito il frontman. In questo caso, l’Italia ha fornito forse l’esempio più terribile con il corpo del dittatore sconfitto appeso alla pensilina di un distributore di benzina per poi essere offerto alla mercé dei passanti… Pessimo auspicio, o forse solo il segno premonitore del passaggio da quella che è stata (forse) la migliore dittatura in Europa a quella che è (forse) una delle peggiori democrazie, comunque preferibile alla prima, nelle parole di Sandro Pertini. Un po’ più complicato sarebbe stato per le turbe popolari – a Roma nel ’45 come a Varsavia nell’89 – tirare giù a furor di popolo con funi e spallate il ‘Colosseo Quadrato’ dell’EUR o il Palazzo della Cultura e della Scienza, dono di Stalin alla Polonia, quasi subito riconvertito dalla Polonia democratica per costituire nel centro di Varsavia uno dei più importanti poli di arte moderna.
Non sembra si possa ricordare nella storia dell’architettura che un edificio simbolo di un regime oppressivo sia stato successivamente demolito ‘a freddo’, cioè per decreto di un nuovo più illuminato Governo – più democratico o meno del precedente – e questo per ovvie ragioni di opportunità economica (per il bilancio pubblico) oltre che politica (nei confronti dei vinti), e di memoria storica (nei confronti di tutti). Rimane ancora da sottolineare l’innegabile successo che ebbe nel corso di tutto il Novecento uno stile architettonico moderno, elaborato in Italia durante il fascismo da progettisti come Giuseppe Terragni, Adalberto Libera, Giuseppe Pagano, Luigi Moretti, Giovanni Michelucci, Angiolo Mazzoni, che, come tanti italiani, strano a dirsi, avevano creduto nel Fascismo. Le loro opere – riscattando esempi magniloquenti quali i colonnati pseudo-classici dell’EUR e operazioni sbagliate come gli scellerati sventramenti urbanistici nel cuore di Roma – furono capaci di anticipare modalità comunicative ancora ben vive e presenti nelle moderne democrazie e costituirono la base per molte delle migliori esperienze di architettura internazionale, a partire da quella di Peter Eisenmann.

Per non parlare di quelli che possiamo considerare nitidi esempi di architettura post-fascista quali la Montreal Stock Exchange Tower che dal 1963 svetta nel cielo di Montreal concepita da Luigi Moretti seguendo la suggestione del più popolare tra i simboli del regime fascista: il fascio littorio. Per tornare al caso dell’Italia, piuttosto che suggerire improvvide rimozioni, sarebbe consigliabile che tutti i cittadini prendessero coscienza del patrimonio di architettura pubblica del Novecento che attende di essere meglio utilizzato e tutelato: tanti impianti sportivi dell’ex Gioventù Italiana del Littorio, sparsi in molte città di provincia, o interi complessi come la cittadella fieristica di Messina (che da anni abbandonata, attende di essere restituita alla città) fino alle Case del Fascio, spesso edifici di grande valore architettonico che si presterebbero ad un uso culturale da parte degli enti locali, invece di essere relegati da settant’anni ad uffici periferici del Ministero delle Finanze (forma sottile ma molto efficace e perdurante di damnatio memoriae!), potrebbero essere riusati e valorizzati ad altro fine.
Questa regola di buon senso vale anche per gli slogan e i simboli che qualcuno vorrebbe cancellare dai monumenti del fascismo: è improbabile che l’aquila fascista che campeggia sulla facciata del Dopolavoro dei dipendenti dei Monopoli di Stato turbi più di tanto gli spettatori che a Roma affollano il Nuovo Sacher, la sala cinematografica gestita dal non fascistissimo Nanni Moretti. Per quanto arduo da accettare, le forme dell’architettura fascista non solo sono rimaste tra noi, ma costituiscono parte non secondaria della nostra cultura visiva e spaziale, basta saperle accettare, facendone l’uso migliore possibile, anche la sede di una maison di moda!