È proprio vero che l’arte boicotta le leggi sottese agli stereotipi. Per questo ci rende liberi: spacca le catene del pensiero superficiale, qualunquista, e le rimpiazza con associazioni inaspettate, assolutamente imprevedibili. I soggetti che finiscono sulle tele di Botero lo testimoniano: “i suoi ciccioni e le sue ciccione” sono tutto fuorché l’idea che “ciccioni e ciccione” rimandano nell’immaginario collettivo. Sono, invece, esseri leggiadri, buffi, malinconici. Dispensatori estetici di grazia, tenerezza, sensualità.
L’Ala Brasini del Complesso del Vittoriano di Roma ci offre la possibilità di sperimentare questo trucco magico che l’arte opera grazie alla mostra Botero, curata da Rudy Chiappini, che ha preso il via il 5 maggio scorso e rimarrà aperta fino al 27 agosto 2017.
La mostra vuole celebrare i cinquant’anni di attività del pittore colombiano — dal 1958 al 2016 — esponendo cinquanta opere provenienti da tutto il mondo: un modo ammirevole per festeggiare, al contempo, anche gli 85 anni di vita dell’artista, nato a Medellín nel 1932.

È raro trovare un percorso espositivo che si fissa nella mente del visitatore e vi rimane a lungo dopo aver visitato la mostra. Rudy Chiappini ha avuto la felice intuizione di suddividere l’attività di Botero attraverso delle sezioni corrispondenti a dei nuclei fondamentali della sua poetica e di riassumerli in parole-concetto che consentono di creare una panoramica tematica completa dell’operato del Maestro. Lavoro riuscito anche grazie alle audioguide — per una volta, gratuite! — messe a disposizione dal museo che propongono non solo delle spiegazioni relative ai singoli quadri, ma anche delle preziose citazioni dell’artista.

Si comincia da Synthesis. Botero è famoso per aver riletto il classicismo e averne restituito una visione assolutamente personale, a cavallo fra omaggio, ironia, deformazione.
Se prendiamo quadri come “La Fornarina” (2008), oppure “Maria Antonietta” (2005) o il celebre dittico “Piero della Francesca” (1998), o ancora “I coniugi Rubens” (1965), è evidente quanto i soggetti e le forme della pittura del passato abbiano inciso sul pennello dell’artista.
Eppure, per quanto ardito o irriverente possa sembrare l’atto d’interpretare a proprio modo soggetti di Raffaello, Velázquez, Piero della Francesca — veri intoccabili dell’iconografia classica — oppure quello di ironizzare su personaggi storici, politici e biblici, Botero non perde mai di vista il concetto di Limite. “Quello che faccio, potrebbe essere improbabile se non impossibile. Mi spingo fino al limite, badando di non superarlo”.
Partendo dal presupposto che “la storia dell’arte è un inesauribile magazzino di immagini”, Botero rivendica l’appartenenza a un’unica tradizione: “Se dipingo un quadro che ha lo stesso tema usato da un pittore famoso, io sono parte della stessa tradizione”, ma si premura di sottolineare che “Io non imito. Ricreo alla mia maniera”. E questo garantisce l’assoluta inventiva, la riconoscibilità del suo gesto, che sottopone le forme a un processo di lievitazione — lui usa il termine “deformazione” — che origina, sempre a suo dire, da una “inquietudine estetica, una ragione stilistica”. Botero, a questo riguardo, parla di Coerenza, che si realizza solo quando “un artista crede fortemente in qualcosa”. E Botero crede fortemente nella dilatazione delle forme, che è legata al colore: più le forme sono ampie, più offrono al pittore la possibilità di sperimentare le infinite potenzialità plastiche del colore.

È il Colore — altro concetto-chiave — che spinge Botero ad agire sulla misura e i volumi degli oggetti/soggetti. Grazie alla vividezza e allo spessore cromatici, si crea una dimensione di fiaba, un incanto. Tutto sembra sostare in un universo fiabesco fuori dal tempo, specie con le splendide nature morte, come “Natura morta con caffettiera blu” (2002) oppure “Natura morta davanti al balcone” (2000), in cui arance, bottiglie, caffettiere e fette di anguria ci portano in un sospeso atemporale e fantastico, in cui anche gli articoli più comuni e quotidiani sono portatori di magico — come non pensare qui al conterraneo di Botero, Gabriel Garçia Marquez, che, sostituendo la penna al pennello, la carta alla tela, circonfuse di realismo magico le sue storie di amore, morte, politica e guerra?
Un altro nucleo centrale sondato dalla mostra è proprio l’Encantamento: le figure boteriane sono tutte immobilizzate in un non-spazio tra sogno e realtà nel quale i personaggi sono “incantati”, immobili, còlti in un momento di stupita assenza — o forse di altra coscienza? Da un lato siamo loro vicini, ma dall’altro siamo lontanissimi. “Come se i personaggi indossassero delle maschere d’indifferenza… non ti guardano mai”, nota l’artista. Rappresentativo, in questo senso, “Sorelle” (1969).
Così facendo, riesce, Botero, ad assurgere il quotidiano, il famigliare — il “parrocchiale” lo definisce lui — a un livello tutto onirico.


Ma l’artista colombiano è anche un esploratore di realtà terraterra, attraverso uno sguardo marcatamente ironico. La scena politica, che pullula di figure enigmatiche, guardate sempre con velato umorismo — “Il Presidente e la First Lady” (1989). La scena religiosa, con preti che paiono levitare sotto ombrellini da cocktail — “Passeggiata sulla collina” (1977). E la scena circense, con i suoi acrobati, musici, pagliacci e contorsionisti, perché “nel circo tutto è possibile”, sintesi perfetta tra forma, concetto, poesia e nostalgia — “Gente del circo con elefante” (2007).
Quest’ultima, la Nostalgia, è un sentimento che Botero conosce e frequenta da sempre. Le sue ambientazioni pittoriche, anche le più vivaci, anche le più buffe, sono sempre avvolte da un velo malinconico, di dolce tristezza, come se i personaggi sollevassero un angolino del lembo di mistero che li ammanta e ci facessero intravedere l’anima blues dell’artista. Questa saudade sembra scaturire anche da un mondo lontano che forse non esiste più, legato alla sua Medellín, la città d’infanzia che Botero lasciò, ventenne, per la Spagna, poi per Roma, Pietrasanta, New York, Parigi e Montecarlo — i luoghi tra i quali si divide in una vita ancora oggi estremamente raminga.


Ma certo Botero è anche la languida Sensualità di Botero. Guardando a “Donna seduta” (1997), il nudo scelto per la locandina della mostra, i fianchi voluttuosi, i seni torniti, il braccio portato sensualmente dietro la nuca, novella Maya Desnuda eretta, dalle curve ben più che rinascimentali, non possiamo non trovare un eros sottile, alluso più che manifesto, che passa anche per i dettagli: le perle di una collana morbidamente adagiata sul petto, lo smalto alle dita dei piedini dimensione geisha, e un paio di orecchini di fiamminga memoria. Lo sguardo dello spettatore percorre le curve di questa strana meraviglia umana sbucata da chissà dove, gli occhietti fissi nel vuoto, l’espressione ineffabile.
Anche gli estimatori della scultura non rimarranno delusi dalla mostra. Oltre a una serie di statue collocate nella parte iniziale, staziona, all’ingresso del Vittoriano, uno splendido “Cavallo con briglie” in bronzo del 2009. Invoglia a saltarci in groppa, e lasciarsi condurre nella dream land che Botero ci racconta ormai da mezzo secolo…
Al termine del percorso espositivo, abbiamo sentito un paio di visitatori rammaricarsi, la tipica cantilena dell’infanzia a far da eco. “Come? Già finito? Nooo, ancora…”.
Potrebbe responso a una mostra essere più lusinghiero?