Se per il cinema esistono gli Oscar, per l’architettura c’è la Biennale di Venezia. In questo scenario impareggiabile anche quest’anno è stata appena inaugurata la quindicesima edizione che richiama i migliori progettisti di tutto il mondo.
Reporting From The Front è il titolo scelto con l’ambizioso proposito di raccontare, citiamo testualmente, “esempi di successo in cui l’architettura ha fatto, fa e farà la differenza [..] aggiungendole una dimensione sociale, economica ed ambientale”.
In parole povere l’intenzione, lodevole, è quella di distogliere per una volta lo sguardo dalle spettacolari architetture milionarie lasciando spazio a quei progetti, meno celebrati, che concretamente cercano di risolvere le emergenze di questa nuova epoca.
Dopo l’indigestione di mega-edifici osannati negli ultimi due decenni sembra che ci si sia improvvisamente resi conto che il mondo, quello reale, debba fare i conti con problemi economici, ambientali e soprattutto etici che non posso più essere ignorati.
È per questo motivo che l’esposizione all’Arsenale si apre con una suggestiva sala in cui l’allestimento è realizzato utilizzando esclusivamente materiale di scarto della scorsa Biennale. I rifiuti di un’architettura patinata, quella raccontata dall’edizione del 2014, si trasformano qui in un’esposizione nuova, etica ma, che tuttavia non rinuncia ad un’estetica comunque coinvolgente, anzi splendida.

Tutto bene fin qui ma c’è un però. Il 27 di novembre, quando anche questa manifestazione terminerà, pure questo baraccone verrà inesorabilmente smantellato divenendo rifiuto a sua volta. Non si tratta di una cosa di poco conto né di una considerazione meramente materiale ma piuttosto un indizio delle contraddizioni di una mostra tanto ispirata all’etica ma che finisce poi per assomigliare proprio a ciò da cui vorrebbe prendere le distanze. Ma del resto può un avvenimento così effimero ed istituzionale essere realmente sociale? Probabilmente no.
Certo ciò che questa Biennale certifica è un’inversione di tendenza che ha ormai trasformato l’architettura che si riscopre ora una disciplina più attenta ai problemi del mondo di oggi: povertà, risorse naturali limitate, clima e soprattutto la sempre più spinosa questione dei flussi migratori sono finalmente argomenti centrali di questo nuovo approccio.
In mostra nelle due sedi principali, quella dell’Arsenale e quella dei Giardini, ci sono come al solito un numero enorme di progetti provenienti davvero da ogni parte del mondo. Si va dalle opere del l’ispiratissimo cinese Wang Shu, attento a conservare le antiche tradizioni costruttive dei villaggi tradizionali del suo paese minacciati dalla “fame” atavica di modernità che sta cancellando il prezioso passato rurale, alle opere degli americani di Rural Studio che costruiscono invece, con l’aiuto di studenti, edifici con materiali di riciclo. Colpisce poi la riscoperta di materiali antichi come il bambù e la terra cruda, sempre più spesso utilizzati ed apprezzati per la loro economicità e la facilità di reperirli.
Ma ci sono poi, nonostante i proclami, anche tante, tantissime archistar che sembrano aver furbescamente fiutato la tendenza globale. Se è convincente la proposta del portoghese Souto de Moura che demolisce parzialmente un suo progetto giovanile per farne un centro civico, si rimane invece perplessi di fronte all’enorme plastico di Tadao Ando che riproduce il museo veneziano di Punta della Dogana. Ad oggi il nesso con il tema di questa Biennale rimane oscuro.
Renzo Piano espone alcuni dei progetti che nel corso della sua quarantennale carriera hanno riguardato temi sociali. La delusione più cocente tuttavia è quella che inaspettatamente viene da Peter Zumthor. L’ascetico maestro svizzero, in contraddizione con se stesso e il tema della mostra, propone il suo ultimo progetto per un museo a Los Angeles. Lui che non aveva mai costruito a più di una manciata di chilometri dal suo villaggio svizzero.

Infine non si può non citare un certo Sir Norman Foster che con la sua proposta sembra incarnare perfettamente tutte le contraddizioni che sottendono a questa Biennale. Il grande architetto inglese, il mito vivente delle archistar, il maestro dello stile hi-tech, si reinventa qui come paladino del progetto umanitario svestendo momentaneamente i panni di testimonial Rolex (che a proposito è il main sponsor della manifestazione) presentando un progetto da lui definito innovativo che sembra però attingere a piene mani all’opera di Eladio Dieste, genio uruguaiano del secolo scorso. Insomma proprio tutti sembrano volerci essere in laguna questa volta anche a costo di rinnegare il proprio recente passato. Da questo punto di vista la quindicesima edizione rappresenta un successo senza precedenti.
Del resto se nel 2014 a curare la mostra fu la più importante archistar mondiale, l’olandese Rem Koolhaas, per questa edizione, la numero quindici, c’era bisogno di un un nome capace di suscitare un interesse simile. La scelta quindi, quasi per contrappasso, è ricaduta su un giovane – aspetto molto gradito ai vigenti burocrati della rottamazione – che si chiama Alejandro Aravena. Si tratta di un cileno, classe 1967 (sì, per noi architetti essere alla soglia dei cinquant’anni vuol dire essere ancora dei giovani), un nome che può sembrare, ai più, un azzardo. Eppure questo architetto tenebroso e brizzolato ha alle spalle un curriculum che sembra messo insieme apposta per ricoprire questo incarico. Scorrendolo al volo scopriamo che nel 1991, ancora studente, prese parte alla Biennale mentre l’anno successivo si trasferì a Venezia per un anno di studio allo IUAV, infine tornò di nuovo qui nel 2008 vincendo il Leone d’Argento. A questo aggiungete una cattedra ad Harvard ed essere stato per molti anni membro della giuria del Pritzker Prize, il Nobel dell’architettura, prima di vincerlo lui stesso proprio quest’anno. Insomma nessuno più di lui era in realtà adatto a curare un simile evento.
Bastano insomma poche notizie biografiche per svelare l’ennesima contraddizione dietro questo evento: il tentativo cioè di discostarsi definitivamente dal passato e dalle archistar per mano però di un curatore che, seppur giovane ed ancora poco noto ai più, tuttavia a quel mondo appartiene eccome. Ma del resto, ancora una volta, può un avvenimento così globale essere affidato ad un autentico outsider? Verosimilmente no.
E allora come dobbiamo interpretare l’accattivante metafora visiva con la quale questa Biennale viene raccontata dal suo curatore? Una brillante ed arguta immagine, un perfetto veicolo per pubblicizzarlo (non a caso compare su tutti i manifesti): Maria Reiche in piedi su una scala mentre scruta il deserto. Questa è la simbolica scelta di Aravena per rappresentare questa Biennale.

Matematica e soprattutto archeologa la Reiche divenne famosa in tutto il mondo per gli studi sulle linee di Nazca nel deserto del Perù. Il perché di questa scelta è lo stesso Aravena a spiegarcelo: non potendo permettersi un elicottero la studiosa intuì che un semplice scala di alluminio sarebbe stata una soluzione semplice ed economica ma al tempo stesso perfetta per il suo lavoro. Da lassù fu in grado di osservare quelli che a terra sembravano delle banalissime pietre ed accorgersi che formavano invece dei disegni.
Insomma una sintesi visiva efficace di quella capacità di guardare oltre dei progettisti che la Biennale dichiara di voler celebrare quest’anno.
Un prodotto così ben confezionato da sembrare realmente autentico ma che in realtà ha gli stessi ingredienti (e limiti) di sempre. Più etico e più sostenibile, e questo è certamente un merito, ma non certo rivoluzionario ma stavolta almeno si sentiranno tutti un po più in pace con la propria coscienza. Allora probabilmente l’architettura non salverà il mondo ma questa Biennale per lo meno salverà gli architetti.