All'età di 15 anni Arianna Carossa scrisse una lettera al gallerista Leo Castelli. “Gli dissi che volevo lavorare per lui – racconta l'artista– E la sua risposta fu: 'Sei molto giovane. Trova una galleria [per cui lavorare] in Italia, e poi vieni da me'. Ero delusa. Quando hai quindici anni pensi di conquistare il mondo in due secondi. Ero delusa perché non mi aveva detto 'vieni qui e lavora con me'. Ripensandoci avrei dovuto essere felice per il solo fatto che aveva risposto”.
Nonostante la delusione, Carossa seguì il consiglio di Castelli. Con determinazione, iniziò a lavorare per una galleria d'arte in Italia, sette anni dopo riuscì finalmente ad arrivare a New York, ma nel frattempo Leo Castelli era morto.La storia finisce così, ma una nuova fase nella movimentata sua carriera artistica stava per iniziare.

Medusa, 2015, ceramica

Installazione, 2014: panca da chiesa, plexiglass, legno, ananas, pittura a olio
Come artista, Arianna Carossa ha avuto il coraggio di seguire il suo cuore, passando, senza timori e piuttosto imprevedibilmente, ad un nuovo mezzo espressivo quando un altro non la stimolava più. Cresciuta a Genova, ha iniziato come pittrice ma dopo qualche tempo ha iniziato a sentirsi limitata dalle possibilità offerte dalla tela. Poi è arrivato il richiamo della ceramica e le sue mani non hanno saputo resistere. Infine, ha iniziato a lavorare con installazioni che prevedono l'uso di mobili. Poi si è trasferita a New York, e tutto è cambiato.
New York rappresentava il sogno per un'artista in erba come Arianna Carossa, ma la dura realtà della città si è mostrata subito ben diversa da quella della sua fantasia. “Vivendoci mi sono accorta che vivo in eterno contrasto con questa città. L’ho riportata a terra, in un certo senso”, dice.
È critica nei confronti della società americana, non solo in quanto artista, ma come essere umano che vive su questa terra. “Sono comunista, sostanzialmente. Penso che l’individuo ha bisogno di uno stato che lo supporti. Ho bisogno di credere in un mondo che offre simili opportunità. Una cosa che non sopporto dell’America è la charity. Io voglio che sia lo stato a dare soldi alle persone con più problemi e non il singolo individuo. Se il singolo individuo dà denaro o aiuto, si crea potere. Questo non mi piace. Esistono una serie di cose che dovrebbero essere, a mio avviso, garantite dallo stato per poter vivere dignitosamente… che sono l’educazione e la sanità. Cose molto basic”.

Natura morta, 2015, dipinto a olio e sedie
Allo stesso tempo, l'artista ammette che vivere a New York City è un poco una lama a doppio taglio: se da una parte sente di non appartenere alla società americana di cui ci sono cose che cambierebbe, dall'altra la città le offre opportunità che non potrebbe trovare altrove. In particolare, New York ha avuto un impatto enorme sul suo lavoro, ed ha avuto una grossa parte nella decisione di lanciare la sua carriera artistica verso nuovi, inesplorati territori. “Mi sento più ricca da quando sono qua. Stando qua, paradossalmente, ho iniziato a togliere delle cose che erano quasi un superfluo. Tutto il lavoro è diventato più sintetico. È interessante perché sono nella città dell’abbondanza, dell’iper-produzione. Io invece, stando qui, ho diminuito la produzione a favore di una maggiore sintesi del lavoro”.
Se c'è una verità in quello che si sente dire su New York è che, come tanti centri culturali del mondo, qui c'è sempre qualcosa di nuovo, si vivono nuove esperienze, aprono nuove mostre. Per Carossa tutto questo è troppo. “Vivendo qui a New York ho pensato, che noia! Quanta roba, immagini, immagini, immagini. Quante immagini vediamo? Quante immagini ci sono nel mondo? Quante immagini d’arte ci sono nel mondo? Quanti opening ci sono? Ma perché? Non riuscivo più ad andare a un opening. Ero full. Diventa tutto uguale”.
Questi pensieri sono andati a confluire in un libro pubblicato l'estate scorsa dal titolo, The Aesthetic of my Disappearance (L'estetica della mia scomparsa), in cui sperimenta con una nuova forma d'arte. La pubblicazione ha segnato una svolta definitiva nella carriera dell'artista. Come parte del progetto ha invitato nove critici d'arte ad intervistarla su una ipotetica mostra in un ipotetico spazio. Ai critici ha chiesto di inventarsi delle domande su tale inesistente mostra. Il libro rappresenta il culmine della libertà artistica, più lo scenario è fantasioso, meglio è. Spiega l'artista con un esempio: “Potrebbero dirmi: crea una mostra nella casa dei Puffi. E poi chiedermi perché ho utilizzato proprio quei materiali”. L'obiettivo era creare una descrizione orale di un lavoro, senza realmente vederlo. Ma c'era un'altra domanda a cui Carossa voleva rispondere: “Può l’estetica passare da altri sensi che non sono la vista?”.
Il libro è stato presentato al MoMA PS1 ed è in vendita da Printed Matter. La prima edizione è stata un tale successo che sta lavorando ad una seconda.
Dopo l'uscita del suo libro Carossa ha lasciato il territorio dell'ipotetico e cominciato ad applicare la sua teoria a mostre nella vita reale. Ha iniziato a lavorare con una nuova forma d'arte che attiva i diversi sensi. Non solo la visione, ma anche olfatto, udito e tatto. Dopo tredici anni di lavoro con oggetti tridimensionali, Carossa in un primo momento ha fatto fatica a trovare la strada. “È stato come cancellare tutto ciò che sapevo”, dice.

L’installazione I Funghi del Guru
Di recente, l'artista ha realizzato una mostra dal titolo I Funghi del Guru, allo Spazio O' di Milano, uno spazio non-profit che spesso ospita spettacoli di musica elettronica dal vivo e lavora con artisti d'avanguardia e compositori. C'erano due oggetti presentati in una galleria per il resto vuota, che imitavano l'un l'altro nelle forme sinuose: una corda e un serpente. In sottofondo, due registrazioni audio dell'avvolgente voce di Carossa, una in cui ripeteva all'infinito la parola "tegamino" e un'altra in cui raccontava la storia di un guru indiano che si arrampica fino al soffitto su una corda. Le registrazioni si sovrappongono l'una all'altra e la voce di Carossa ipnoticamente pervade la mente del visitatore (vedi video in fondo).
La combinazione di questi oggetti può sembrare casuale, ma non lo è. Nell'ideare questa mostra Carossa è stata ispirata da un caro ricordo della sua infanzia: a dieci anni, in TV vide un uomo indiano che saliva su una corda. Curiosa chiese alla madre cosa l'uomo stesse facendo e la madre rispose: “lo yoga”. “Che cosa è lo yoga?”, chiese allora la bimba. “Tu guardi un oggetto e diventi l’oggetto”, rispose la madre. Perplessa dalla risposta e determinata a vedere come funzionava, Carossa volle provare di persona. “Sono andata in camera sua, mi sono seduta a terra nella posizione dell’Indiano e ho iniziato a fissare il comodino. Dopo un po’ mia madre viene e mi dice: ‘ma cosa fai?’. E io: 'Shhhh! Sono il comodino'”. È un tenero e comico ricordo d'infanzia, ma l'artista dice di essere sicura di essere stata quel comodino, anche solo per un istante. “Infondo si tratta dell’utilizzo della parte destra del cervello. Io sono sicura di esser stata quel comodino. Ho riconosciuto quello che provo quando disegno, cioè l’immersione all’interno di un oggetto che sto rappresentando. Anche nella meditazione questo accade”.
Per quanto in mostra non ci sia alcun guru indiano che si arrampica su una corda, le registrazioni in sottofondo associate alla presenza della corda portano il visitatore a immaginare il guru arrampicato sulla corda. Per la prossima mostra, Carossa ha registrato nitriti di cavalli all'interno di una fabbrica. L'idea è di occupare semplicemente uno spazio con il suono registrato su vinile e accompagnarlo a qualcosa che ricordi l'odore dei cavalli. Piuttosto che vedere i cavalli, attraverso l'attivazione di altri sensi (udito e olfatto) il visitatore potrà immaginarli nella sua mente.
Costantemente esposta a nuove immagini, la mente smette di capire o apprezzare quello che sta guardando; le immagini perdono il loro valore e diventano insignificanti. Questo è il timore di Carossa ed è ciò che l'ha spinta a creare una nuova forma d'arte che stimola i visitatori a sperimentare l'arte non solo visivamente, ma attraverso altri sensi. “In questa iper-produzione d’immagini, per me c’è un grande rischio, che non è la perdita del reale, ma la perdita dell’immaginario. Per me l’idea di raccontare un'opera mantiene la sacralità dell’opera in modo che l’opera sia nella tua testa e quindi tu possa immaginartela, ma non sia svelata, come ogni cosa è svelata in questo momento attraverso i social network, attraverso tutto”.
Guarda il video della mostra I Funghi del Guru>>