Prima di partire e trasferirmi a New York (in cui non ero mai stata) per oltre sei mesi, tutti mi dicevano, “vedrai, New York è proprio come nei film e nei telefilm: avrai la sensazione di conoscerla già”.
Ecco, no. Non è vero. Questo mi è stato chiaro da subito. New York ha iniziato a sorprendermi dalla prima sera, quando il taxi mi ha portato dal JFK a Boerum Hill, Brooklyn. E questa è stata la cifra che ha segnato dall’inizio il mio rapporto con Gotham e il mio, conseguente, fortissimo bisogno di conoscerla e capirla.
Certo, c’è il mito di New York, che è stato cristallizzato iconograficamente soprattutto da tanto cinema. E New York è anche un vero e proprio brand di straordinario successo, con caratteristiche così codificate da rasentare il luogo comune, un clamoroso esempio di marketing territoriale straordinariamente riuscito. Ma il mito e il brand raccontano una storia parziale (di cui è protagonista soprattutto Manhattan), in cui possono facilmente riconoscersi i turisti di passaggio, quelli che restano pochi giorni o poche settimane e hanno un rassicurante elenco di must, posti da vedere e cose da fare, esaurito il quale penseranno di avere capito tutto. New York però è una realtà estremamente complessa e stratificata, a cui la definizione di “città” sta stretta, che si offre generosamente e al contempo sfugge, non si lascia mai afferrare completamente. Una realtà che è cosmopolita e americana allo stesso tempo.

A spasso per Soho
Impossibile capire grazie a qualunque film cosa sia a New York una limpidissima e ventosa giornata invernale di sole a meno 27° centigradi o cosa significhi imparare ad arrivare a destinazione cambiando più volte metropolitana e autobus, difficilissimo rendersi conto della quantità di persone che vivono serenamente da anni a New York praticamente senza parlare una parola di inglese, impossibile intuire come nella breve distanza di pochissimi blocks si susseguano mondi socialmente, etnicamente e talvolta linguisticamente lontanissimi, quando non addirittura incompatibili. Inimmaginabile la rivalità tra Brooklyn e Manhattan, in tutti i suoi risvolti. L’architettura, d’altro canto, ha naturalmente bisogno di uscire dalle immagini bidimensionali che ce la restituiscono appiattita, per farne una esperienza reale. Francamente sorprendente, poi, la convivenza (piuttosto pacificamente accettata dai newyorchesi) con i topi che spesso scorrazzano senza timidezza tra i binari della metropolitana e la sera in molte zone…
Aver avuto l’opportunità di vivere prima a Brooklyn e poi a Manhattan, sulla soglia tra Upper East Side e Spanish Harlem, mentre lavoravo downtown, a Soho, ha ampliato molto il mio sguardo sulla città, consentendomi di sperimentare in prima persona la straordinaria ricchezza e varietà culturale di New York.

Glenn Ligon (1960-), R├╝ckenfigur, 2009, neon e vernice, Whitney Museum of American Art, New York
La letteratura sembra avere più mezzi o strumenti più adatti, più chance a sua disposizione. La voce di Paul Auster per esempio (per fare un solo nome) consente di ritrovare la contraddittoria mescolanza di asperità e bellezza, potere seduttivo e durezza della città, in romanzi che colpiscono per la loro spudorata autenticità. Soprattutto, ma non solo per questo ai miei occhi New York si è progressivamente disvelata come una città sempre più, e specificamente, letteraria. Sia nel senso fondamentale che è un luogo in cui sono annidate infinite storie che aspettano di essere raccontate (caratteristica che la definisce), sia perché la letteratura e la poesia fanno parte della vita quotidiana della città grazie a un tessuto diffuso di reading, conferenze, incontri con gli autori, poetry slam.
Per un umanista, uno storico dell’arte, vivere a New York costituisce anche un’occasione unica per esplorare l’arte e la cultura americana.

Emanuel Leutze (1816ÔÇô1868), Washington Crossing the Delaware, 1851, oil on canvas, Metropolitan Museum

View with the Whitney Museum from the Standard Hotel

The Brooklyn Museum
A cominciare dall’American Wing del Metropolitan Museum, prezioso e insostituibile serbatoio di opere d’arte, immagini, manufatti che consente un contatto ravvicinato e approfondito con la storia, la cultura e l’arte degli Stati Uniti. In quest’ala è esposto il quadro storico che è una vera icona della fede americana: Washington Crossing the Delaware di Emanuel Leutze.
E naturalmente il Whitney Museum of American Art, la più importante istituzione completamente dedicata all’arte americana contemporanea. Fondato nel 1931, ha riaperto a maggio nella nuova sede progettata da Renzo Piano nel Meatpack District.
Probabilmente non conosciuta quanto meriterebbe è la collezione di arte americana del Brooklyn Museum , realtà museale estremamente vivace e che a New York per ricchezza delle raccolte è seconda solo al Met.
Di grande interesse è anche il Queens Museum, la cui sede è il padiglione della Città di New York realizzato per la New York World’s Fair del 1939, poi riutilizzato per la World’s Fair del 1964, che conserva molti memorabilia dei due expo e il grande Panorama della Città di New York, realizzato nel 1964 per documentare e celebrare l’assetto urbanistico di New York.
Ma se si vuole entrare in intimità con New York e con la cultura americana, non ci si può naturalmente limitare ai musei d’arte. Bisogna camminare tanto e possibilmente almeno una volta alla settimana sbagliare strada, itinerario, metropolitana, per trovarsi dove non era previsto andare. Il modo migliore, se non l’unico, di incontrare ciò che non è riconoscibile.
Bisogna andare a teatro e nei locali: la scelta è smisurata. Almeno un musical a Broadway, per esempio un grande classico di Bob Fosse come Chicago, e lo spettacolo di una delle più strepitose compagnie di danza al mondo, la Alvin Ailey (se possibile, vedere Revelations , vero patrimonio della cultura afroamericana). Per ascoltare poesia il Nuyorican cafè, luogo di incontro delle molteplici culture e identità etniche newyorchesi, celeberrima sede di poetry slam ormai entrati nella storia. Il jazz, dappertutto.

The Brooklyn Heights Promenade

A caccia del Manhattanhenge sulla 42esima strada, 29 maggio 2015. Photo: Ilaria M. P. Barzaghi.
E la Carnegie Hall, il Met opera, tutto il Lincoln Center, la Frick Collection, il Moma, le mostre all’Armory Park, il Guggenheim Museum, gli incontri e conferenze al 92 Y sulla Lexington, Central Park, Harlem, la passeggiata di Brooklyn Heights, Park Avenue, le meravigliose biblioteche come la New York Public Library, la Watson Library dentro al Met, la Frick Art Reference Library, Grand Central Station e la 42nd, le tantissime gallerie d’arte, Times Square, la caccia al Manhattanhenge, Brighton Beach e Coney Island, gli speekeasy…
È un elenco che potrebbe non avere fine. Occorrerebbe lo spazio almeno di un volume… D’altra parte, New York è senza dubbio, di fatto, anche un genere letterario.
A New York si è quasi sempre in preda a quello che si può a ragione definire come lo stato d’animo più tipico della città: la sensazione che anche se stai facendo tantissime cose, stai comunque perdendo qualcosa, e qualcosa di importante. Così non hai mai voglia di tornare a casa, di andare a dormire la sera. Ed è un sentimento assolutamente motivato: nella maggior parte dei casi, è proprio vero che ti stai perdendo qualcosa, e qualcosa di speciale.

Il Memorial all’11 settembre
E poi arriva il momento di andare a Ground zero. Non subito, non appena arrivati. Quando qualcuno comincia a chiederti “How long have you been a New Yorker?”, ovvero ti viene riconosciuto che ormai sei diventato una particella attiva di Gotham, allora è tempo. Tempo di farsi strada tra gli alberi di una piazza accogliente come tante altre, tra la folla che si accalca rumorosa – e noti subito che tantissimi sono americani, non i soliti turisti europei e asiatici. Poi a un tratto il silenzio, lo spazio, il vuoto. Le cosiddette piscine, vocabolo del tutto inadeguato, insufficiente per descrivere le due pozze, i due buchi che oggi occupano l’area su cui sorgevano le torri gemelle. Una scelta di una sobrietà formale e simbolica che risulta straziante nella sua efficacia: due vasche così ampie e profonde che non è possibile vederne il fondale al centro, entro cui cade senza sosta l’acqua che sembra partire dai nomi delle vittime dell’attentato incisi lungo tutto il perimetro. L’acqua che sembra trascinare con sé tutti i nomi, tutte le vittime, al centro di un pozzo senza fondo e senza luce.

Il Memorial all’11 settembre
Poi si può continuare a riflettere sull’Undici settembre visitando il Museo accanto, questa volta scendendo fisicamente uno, due piani sottoterra, vedendo i resti metallici quasi liquefatti delle torri, trasfigurati in oggetti che fanno incongruamente pensare a sculture contemporanee, seguendo la riscostruzione narrata in un percorso sempre più angusto, claustrofobico e angosciante, che suscita un’empatia sempre più forte e sempre meno sostenibile con le vittime dell’attentato. Il bisogno di salire, uscire, respirare, continuando a pensare a tutti coloro che non hanno potuto scappare, e provare lo stesso sollievo alla fine.
E allora bisogna tornare a vedere New York dall’alto, quando forse dà il meglio di sé. Salire sull’Empire State Building o in cima al Rockfeller Center, oppure andare in un rooftop bar, a far spaziare lo sguardo.
Quando arrivi a New York, non sai, non puoi minimamente immaginare che cosa chiamerai “casa”: quell’angolo dell’85esima con la Quinta, quando cominci a intravvedere il Met dietro il cartello Museum mile, la Frick Collection, il Met, le sale di Boccioni e delle Demoiselles d’Avignon di Picasso al MOMA, quel bellissimo palazzo su 95th che vedi ogni volta che esci dalla metropolitana per tornare a casa, il Chrysler building visto dalla Lexington e da 42nd, il Flatiron building, la balconata della Carnegie Hall, gli autobus sulla Lexington che vanno downtown, Strand nelle tue più intense serate solitarie, gli archivi della New York Public Library, i playgrounds dove bambini e adolescenti giocano a basket…
E tutta la gente che hai incontrato per caso in metropolitana e sugli autobus, per strada, ovunque: estranei che hanno parlato con te e ti hanno aiutato: l’incredibilmente aperta, amichevole, disponibile gente di New York.
*Ilaria Barzaghi è stata una delle borsiste del programma di fellowship del Center for Italian Modern Art.
Questo articolo viene pubblicato in inglese anche sul blog del CIMA.