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May 29, 2015
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May 29, 2015
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AT&T Building: l’Italia che ispirava Manhattan

Daniela Tanzj e Andrea BentivegnabyDaniela Tanzj e Andrea Bentivegna
Time: 5 mins read

Uno sfondo bianco che incornicia la foto dell’inconfondibile porta Pia michelangiolesca: così si presentava nel 1966 il primo libro di Robert Venturi Complessità e Contraddizioni nell’Architettura un testo che verrà definito da Vincent Scully come “il più importante dai tempi di Vers Une Architecture” di Le Corbusier. Quest’opera influenzerà la progettazione per i tre decenni successivi e il suo autore verrà dichiarato (o talvolta additato) come uno dei padri fondatori del movimento post-moderno, prendendo spunti ed esempi proprio dall’Italia, ma soprattutto da Roma, utilizzando il territorio come un vocabolario architettonico dal quale imparare e attingere per dar vita ad un nuovo stile. Alla luce di questo, la scelta mirata della foto di copertina, con la Porta Pia di Michelangelo, assume un significato particolarmente intrigante.

Il movimento Postmoderno nasce in risposta alla grande crisi che dalla metà degli anni Settanta coinvolge l’International Style e il Movimento Moderno. Una risposta apparentemente reazionaria: si torna a cercare l’ispirazione nell’architettura antica e nei suoi fondamenti. Così, se istantaneamente Roma diventa una “palestra” per gli architetti di questa corrente, che si iniziano a formare proprio attraverso lo studio dei capolavori classici, New York, tra gli anni ’70 ed ’80, ne diventa il ring sul quale iniziano ad esibirsi in stimolanti scontri, incrociando i loro guantoni per guadagnarsi la fama e sfidandosi per progettare l’edificio simbolo di questa nuova era. La vittoria andrà, ironicamente, al più furbo e cangiante dei progettisti del novecento: Philip Johnson, figura longeva ed instancabile capace di attraversare tutti i movimenti del secolo adattandosi di volta in volta alle nuove correnti.

t1Il progetto che decretò questo verdetto fu quello per l’AT&T Building, lungo Madison Avenue, completato nel 1984, tutt’oggi uno degli inconfondibili simboli dello skyline di Manhattan e che, come disse il premio Pulitzer Paul Goldberger, “prendendosi gioco delle torri di acciaio e vetro che hanno trasformato New York in una città di scatole, questo grattacielo è il più provocatorio ed ardito che sia mai stato costruito dai tempi del Chrysler”. Cosa rende questo edificio tanto particolare? Volendo semplificare la risposta, potremmo affermare che si tratta di un grattacielo capace di sorpassare qualsiasi linea temporale. Con un forte carattere rinascimentale, si impone sulla realtà metropolitana e, sebbene una simile affermazione sembri forzata e fuori luogo, a ben vedere, ne rappresenta semplicemente la consistenza, enfatizzando la sua unicità.

Il progetto di Johnson ripropone audacemente una serie di elementi del passato. Da una parte intende citare Louis Sullivan, il grande maestro della scuola di Chicago che già alla fine dell’Ottocento riesce ad anticipare lo stile americano per il secolo successivo, dall’altra è proprio l’architettura classica la grande fonte di ispirazione e ciò appare evidente in innumerevoli aspetti: dal rivestimento in granito rosa, agli archi della grande loggia d’ingresso (alti ben sette piani), passando per le finestre circolari e, soprattutto, per il discusso timpano che sormonta l’edificio rendendolo una vera e propria icona. I richiami al passato sono espliciti e fu lo stesso progettista che, incalzato dalle critiche, ammise parzialmente i suoi modelli affermando che “l’architettura a New York ha avuto due soli grandi periodi, alla fine dell’ottocento con McKim, Mead and White e negli anni venti con Raymond Hood”. Ma ciò che Johnson astutamente non rivela è che, proprio quei modelli da lui dichiarati, si erano a loro volta ispirati ad archetipi antichi di cui l’AT&T eredita con esito eccellente la mole possente e il disegno classico tanto da apparire come un’antica vestigia tra più moderni palazzi. Dal timpano palladiano, alla loggia d’ingresso in cui si cita Leon Battista Alberti, senza mai dimenticare l’architettura romana, tutto in questo progetto sembra rendere omaggio ai monumenti italiani.

t2Per uno strano gioco di rimandi storici e citazioni, quando nel 2010 Franco Purini progettò il famigerato EuroSky, primo “grattacielo” di Roma, fu inevitabile il confronto con l’edificio di Johnson del quale citerà lo schema delle bucature in facciata, mentre sostituirà al timpano neoclassico due sgraziati piani aggettanti che ospitano pannelli fotovoltaici e un traliccio, una sorta di re-interpretazione locale della dissacrante antenna televisiva, con la quale Robert Venturi fa culminare la Guild House di Philadelphia.

L’effetto che L’AT&T building ebbe sui media fu sorprendente. Il suo profilo ben riconoscibile, che emergeva dall’anonimato dei moderni parallelepipedi che lo circondavano, suggerì a William J.R. Curtis l’analogia tra architettura e beni di consumo, constatando come questo grattacielo fosse più che un’architettura un vero e proprio prodotto di marketing. Sarà infatti solo il primo di una lunghissima serie che continua ancora oggi in tutto il mondo. Ironia della sorte, solo pochi anni dopo il completamento, la società che lo aveva commissionato e in cui aveva spostato il quartier generale, attuò un poderoso piano di ridimensionamento anche per via della crisi economica che colpì il paese nel 1987 e che arrestò quella crescita economica che sembrava inarrestabile, costringendo la AT&T a vendere il grattacielo alla multinazionale giapponese Sony.

Sin dall’annuncio, che avvenne nel 1977, il progetto dell’AT&T Building, scatenò immediate reazioni per lo più caustiche da parte della critica e dei cittadini. Ne derivò un’esilarante antologia di commenti, molti dei quali miravano il vistoso frontone “forato” che venne paragonato ad un mobile in stile “Chippendale” o in altri casi ad un telefono pubblico – con tanto di spazio per inserire le monete – mentre da alcuni l’edificio fu considerato, sarcasticamente, “una copia mal riuscita del Seagram (di Mies) con l’aggiunta di un orecchio”. Tuttavia questo progetto garantì al suo autore un fama senza precedenti e la copertina del Time sulla quale, nel 1979, appare Philip Johnson ritratto con in mano il modello dell’edificio che confermerà lo status di celebrità, rendendolo probabilmente la prima archistar.

Una cosa è certa, liquidare questo edificio come come un eclettico capriccio ai limiti del kitsch significa ignorare la storia di quel preciso periodo storico sospeso tra il tramonto dell’utopia moderna e il fallimento dell’illusione capitalista e che, grazie a questo edifico e al suo ideatore, fu capace di condurci, nel bene e nel male, a quella contemporaneità che stiamo ancora, in certa misura, vivendo tutt’oggi.

 

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Daniela Tanzj e Andrea Bentivegna

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