La forma più comune di street art, e quella che oggi ispira le nostre riflessioni, nasce nei primi anni '70 a New York, dove nel giro di pochissimi mesi, l'energia artistica dei giovani era al servizio della cultura della città ed esplodeva appunto con la street art. Artisti come Keith Haring e Jean Michel Basquiat, negli anni ‘80 portarono per la prima volta quest’arte nelle gallerie, ma la vera rivoluzione stava avvenendo sulle strade, sulle facciate degli edifici abbandonati, in aree apparentemente inaccessibili del paesaggio urbano, dove l’arte di strada emergeva come elemento critico sugli eventi politici e sociali del momento e attivava silenti trasformazioni urbane e sociali.
Il famoso graffito Crack is Wack fu realizzato nel quartiere di Harlem dall’artista Keith Haring nel 1986 senza permesso e per questo causò l’arresto dell’artista e la distruzione dell’opera. Solo poco tempo dopo, riconosciuto l’impatto sociale che quel murales potesse avere sull’intero quartiere, la commissione dei parchi pubblici di New York invitò Haring a rifarne uno che avesse lo stesso messaggio e che oggi dà il nome a quello stesso parco.
New York City oggi continua a servire come mecca per talento creativo nella street art e testimonia il cambiamento che progressivamente sta avvenendo: in origine uno strumento per segnare i confini territoriali della gioventù urbana, oggi è invece visto in alcuni casi come mezzo di abbellimento urbano e rigenerazione.
Seguendo una tendenza urbana globale, il fenomeno della street art a Roma è in rapida crescita. E in quanto tale, le varie parti interessate a giocare – cittadini, artisti/creativi, il mondo dell'arte, l’università, i media, gli enti privati e le istituzioni pubbliche – stanno cercando di capire cosa è definito street art e qual è il potenziale a scala urbana che si basa su di essa.
Un caso esemplare vede oggi Roma protagonista per iniziativa. Conosciamo Roma come città storica, in cui la storia si è lentamente stratificata e i suoi quartieri con essa, ma c’è un’eccezione, quella di Shanghai, nata in una calda mattina del maggio 1933 e tirata su in pochissime settimane. No, non stiamo parlando della millenaria metropoli cinese, ma della borgata romana di Tor Marancia che sorge lungo via Cristoforo Colombo, istituita per regio decreto in epoca fascista ed edificata con infimi materiali per ospitare gli sfollati del grosso sventramento nel centro storico. Questo ammasso di casupole è rapidamente cresciuto con l’immigrazione proveniente dalle campagne e le condizioni di vita furono da subito insostenibili, per anni i frequenti allagamenti trasformavano questo luogo in una palude e proprio per questo il quartiere fu soprannominato Shanghai. Nel dopoguerra la situazione della borgata appariva così malsana che si decise di raderla al suolo e di affidare all’ATER (Azienda Territoriale per l'Edilizia Residenziale del Comune di Roma) la costruzione dei lotti popolari che oggi indichiamo col toponimo di Tor Marancia. È proprio uno di questi lotti, il numero I, che queste settimane viene celebrato da tutti i giornali come esempio di rinascita delle periferie; la dimostrazione della forza vivificatrice dell’arte e della bellezza che possono salvare dal degrado i quartieri marginali. Tutto grazie al progetto Big City Life finanziato da Fondazione Roma e ideato dalla 999 Contemporary, la galleria che ha contribuito in questi anni a rendere Roma una delle capitali mondiali della street art, con la collaborazione del Comune e dell’ATER che hanno dato vita ad un programma imponente ed ambizioso completando, nel cuore della borgata, un evento di 7 settimane in cui 20 artisti provenienti da Italia, Francia, Germania, Portogallo, Hong Kong, Gran Bretagna, Stati Uniti, Argentina, Australia e Cile hanno dipinto 20 facciate alte 14 metri per un totale di oltre 2.500 metri quadrati di opere.
Da oggi Roma ha un museo in più da visitare, dove sono esposti artisti di fama mondiale e per visitarlo bisogna “scendere” sino a Tor Marancia, anzi bisogna addentarsi proprio all’interno del lotto, nel cortile-giardino. L’aspetto che rende però questa operazione ancor più affascinante è, al di là dei numeri, il fortissimo legame che le opere e gli artisti hanno stabilito con l’architettura e il contesto sociale del quartiere, lavorando a stretto contatto con gli abitanti. Ogni “pezzo” sembra raccontare qualcosa di questa Shanghai dell’occidente: il volto vagamente art-nouveau ideato da Diamond è decorato da un grande dragone cinese, mentre la madonna bizantina dipinta da Mr. Klevra riporta la scritta “Nostra Signora di Shanghai”; e poi ci sono le storie del quartiere, con Lek & Sowat che si sono ispirati a quella di Andrea Vinci, un ragazzo disabile che non può uscire di casa perché non c’è un ascensore nel suo palazzo e a lui hanno dedicato il Veni, Vidi, Vinci; oppure il piccolo Luca, il bambino che Seth ha rappresentato poeticamente arrampicato su una scala scrutando il cielo oltre i palazzi e che è morto giocando a pallone proprio in questo cortile. Non c’è retorica, né tantomeno malinconia, grazie ai colori vividi che sembrano riverberare serenità. C’è la superba opera di Jerico, giovanissimo artista dal talento straordinario, che cita la michelangiolesca Creazione di Adamo dipingendola però con una tavolozza di colori degni di Van Gogh. Il giorno dell’inaugurazione, tutte le opere, con i loro stili diversi e il loro linguaggio comune, sembravano proiettare il fascino della primavera romana dal giardino, fin sopra le pareti delle case, accentuando con una forte energia visiva, l’intenzione di rilanciare e promuovere la rinascita di questo quartiere popolare.
Tra l’entusiasmo iniziale, si levano alcune voci fuori dal coro che mettono in guardia gli abitanti di Tor Marancia, denunciando il rischio di gentrificazione, “rischio” che spesso i quartieri delle periferie risanate corrono a seguito di iniziative come questa, che tendono a maggiorare il valore del quartiere, richiamando speculatori edilizi che progressivamente sostituiscono al tessuto popolare originario, nuovi agiati giovani investitori. Ben più ambiguo è invece l’atteggiamento delle istituzioni, in prima fila il giorno dell’inaugurazione, dopo anni in cui hanno combattuto tenacemente questi artisti denunciandoli quali vandali. Sebbene diffusa in lungo e in largo a scala mondiale, la pratica della cosiddetta “arte di strada” è ritenuta ancora oggi fuori legge. Solo tramite il “permesso”, la forma tradizionale di graffiti è tecnicamente considerata arte pubblica, ma senza questo, gli artisti di strada commettono atti di vandalismo su proprietà pubbliche o private e sono, per definizione, criminali. Le autorità hanno finalmente iniziato ad ammettere e fiutare le opportunità, affidando alla street art, il risanamento superficiale delle periferie.
La Street art è oggi finalmente riconosciuta per i suoi effetti rigeneranti sul quartiere e per i suoi benefici sull’ambiente urbano in termini di contributo all'interno della sfera pubblica. La sua rivoluzione non va più cercata nella tecnica, ma nell'approccio istituzionale verso la possibilità di questi cittadini-artisti di usare le pareti dello spazio urbano pubblico come loro tela. Da quello che è sempre stato considerato (e visto come) un atto illegale, una forma ribelle di appropriazione dello spazio pubblico, si costituisce un nuovo paradigma in cui l'arte di strada è vista come un’eccezionale possibilità di valorizzare, consentendo allo stesso tempo ad artisti e creatori di mostrare il proprio lavoro. Ancora oggi purtroppo, dietro queste splendide opere sulle facciate, le case continuano ad essere fatiscenti, gli ascensori non ci sono, la vita è rimasta la stessa. L’arte è narrazione, denuncia e poi riflessione, ma c’è un grosso lavoro che va accompagnato ad essa e che si estende alla politica, ai governi, e alle istituzioni.