New York City ha lanciato nel 2008 il primo spazio coworking della città. In nome di una progettualità che nasce dall’incontro fra saperi e professionalità che convergono su obiettivi comuni, è nato un ufficio aperto a liberi professionisti e lavoratori indipendenti, quelli che potrebbero lavorare da casa con poco più di un iPhone, ma che proprio per questo rischierebbero di alienarsi nella solitudine casalinga. Durante il primo mese, questo spazio aveva circa 25 membri. Oggi New York ospita decine di spazi coworking e svariati incubators il cui numero è destinato a continuare a crescere. Birra nei frigoriferi, yoga a mezzogiorno, eventi settimanali e continue lezioni informative da scegliere; gli spazi coworking della City, a grandi linee, rispondono a queste caratteristiche. Il rovescio della medaglia è che alcuni di essi sono così aperti che è difficile ottenere abbastanza privacy per fare una telefonata, ma per molte start-up, la caratteristica più importante – e quella che li rende una soluzione vincente – è il quotidiano accesso alle reti di altri imprenditori.
Favorire l’interazione tra tutti i dipendenti è una filosofia progettuale già da anni promossa dalle più grandi corporates. Steve Jobbs definiva la creatività “un prodotto degli incontri spontanei, delle conversazioni fortuite” e secondo lui il luogo di lavoro dovrebbe incoraggiare questo tipo di relazioni, proprio per non rischiare di perdere “quella magia che nasce spontaneamente dalla condivisione di idee”. Il concept è quello di ospitare insieme i vari modi in cui le persone lavorano oggi, rendendo possibile o addirittura accentuando la diversità e l’interattività, a discapito dell’isolamento creato da quelle postazioni box che ormai potremmo definire reliquie. La strategia di progettazione è una tipologia che permette incontri accidentali, nonostante l’impeccabile efficienza organizzativa. Quando si progetta uno spazio coworking, si cerca di realizzare un posto che offre un ambiente creativo in cui le idee possano prosperare. Lo spazio deve offrire aree da vedere o da cui essere visti, deve essere adatto a gente estroversa, ma anche a soggetti piu introspettivi. Deve essere aperto, accogliente e comprendere almeno una sala riunioni, delle scrivanie in uno spazio condiviso, qualche ufficio privato, area relax e magari una cucina. Oltre alla struttura, è fondamentale la community, sia virtuale che fisica, e quindi una serie di eventi mirati a cementificarla.

Spazio condiviso del Co.Ho di Roma
Gli spazi architettonici entrano in osmosi con i nuovi modi di operare e di produrre; il giusto equilibrio tra forma e funzione ha un impatto rilevante sul modo di lavorare e interagire con gli altri risultando in soluzioni flessibili che si adattano alle esigenze, a volte anche emotive, di chi lavora. Se è proprio l’uomo il centro della progettazione di questi nuovi spazi lavorativi, di conseguenza il layout si proietta verso il design di un vero e proprio microcosmo urbano, provvisto di “quartieri” delimitati da oggetti di arredo quasi sempre mobili proprio ad informare la necessità di una continua trasformazione; business center in cui si possono tenere riunioni con i clienti e altri lavori transazionali, zone parco concepite per lo svago e il relax, dove le persone possono andare a cercare ispirazione che, nella formazione di idee creative, è fondamentale. Negli spazi coworking vediamo quindi svilupparsi una nuova forma di organizzazione contemporanea, all’angolo tra casa, l’internet caffè e il vecchio ufficio.
È proprio “grazie” alla particolare situazione economica e sociale in Italia, quella della crisi, che il fenomeno del coworking sta rapidamente prendendo forma e con lui il concetto di networking e di community, oltre a quello da non tralasciare di condivisione di spese. In ambiti che spaziano – contaminandosi reciprocamente – dall’architettura al design, dalla grafica alla comunicazione, dall’arte alla fotografia, Roma si è subito allineata a questa tendenza, rispondendo alla crisi e ai costi troppo alti degli affitti, con spazi recuperati da ex fabbriche e loft, curati in ogni dettaglio, tecnologico ed estetico, per condividere i diversi orientamenti. Coworking come exit strategy per affrontare le patologie del lavoro contemporaneo, dando la possibilità a diverse professioni di cooperare tra loro affinché i progetti siano caratterizzati da un approccio multidisciplinare; la settorializzazione e l’assenza di scambi indebolisce la qualità del progetto/prodotto, ma al contrario, la condivisione del sapere e l’utilizzo di un network di comunicazione sono fattori decisivi nella società contemporanea.

Microcosmi urbani nel Co.Ho di Roma
Nonostante l’ambiente che purtroppo ancora oggi osteggia simili iniziative, ci sono giovani che credono nelle proprie passioni. Il Co.Ho di via Tiburtina a Roma ne è un chiaro esempio: un edificio utilizzato negli anni Ottanta come fabbrica tessile e abbandonato per più di 20 anni, fino a quando un gruppo di ragazzi riesce a vedere in quei 1.000 mq di cemento un grande potenziale, re-immaginando lo spazio e trasformandolo nella sede di uno straordinario centro culturale, artistico e lavorativo. Da questo grande loft, sono state ricavate diverse aree, tutte con un preciso carattere, tra arredi di modernariato e oggetti di riuso, creativamente allestite per stimolare i nuovi utenti e aiutarli a lavorare meglio. Non c’è bisogno di muri per separare questi piccoli nuclei in cui artisti, architetti e fotografi freelance hanno creato il loro ecosistema, accentuando così fino al midollo la possibilità (e grande novità) di non dover più bussare ad una porta per chiedere un parere al proprio vicino, e sfruttando quindi appieno tutti i vantaggi del coworking. Stiamo parlando di "atmosfera stimolante” e vediamo in questo una delle forme emergenti di organizzazione contemporanea.